La notte dell’11 agosto, nella tendopoli stampa accanto all’ospedale Al-Shifa, un missile israeliano ha ucciso sei professionisti di Al Jazeera: Anas al-Sharif, Mohammed Qreiqeh, Ibrahim Zaher, Moamen Aliwa, Mohammed Noufal e Mohamed al-Khalidi. Erano tra le poche voci rimaste a raccontare Gaza, affamati, stremati, sotto minaccia costante. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, li ricorda come «voci ormai quasi afone e occhi stanchi» che, nonostante sofferenza personale e collettiva, hanno continuato a testimoniare il genocidio israeliano. «I loro omicidi intenzionali costituiscono un crimine di guerra».
Il copione è sempre lo stesso: prima la campagna di delegittimazione, poi l’eliminazione. Mesi prima, l’IDF aveva accusato al-Sharif di essere “a capo di una cellula di Hamas” senza prove, come già accaduto con Hamza al-Dahdouh e Ismail al-Ghoul. Secondo Noury, il quotidiano Repubblica ha trasmesso in diretta la definizione «giornalista-terrorista» senza virgolette né attribuzione, aprendo la strada a una conclusione implicita: che i sei fossero un bersaglio legittimo.
In Italia, emblematico un post del giornalista del servizio pubblico Giambattista Brunori: «Anas Al Sharif, corrispondente di Al Jazeera ucciso in un attacco mirato israeliano a Gaza City. Qui un selfie con l’ormai defunto capo di Hamas Yaya Sinwar». Una foto senza contesto o comunque priva di prova di attualità. Potrebbe risalire a anni fa, ma il dettaglio non ha impedito che finisse per rafforzare la narrazione di chi giustifica l’assassinio di un cronista.
I numeri raccontano l’eccezionalità del massacro: oltre 230 giornalisti palestinesi uccisi in meno di due anni, uno ogni tre giorni, molti con giubbotti “PRESS”. Gaza è il conflitto più letale per la stampa nella storia moderna: un tasso di uccisioni dieci volte superiore a quello dell’Iraq post-2003. Più di Vietnam, Iraq e Siria messi insieme se si guarda alla densità temporale. Ma la reazione occidentale è tiepida: dove per l’Ucraina si sono visti mandati di cattura e sanzioni, qui si collezionano “profonde preoccupazioni” e richiami al “diritto di Israele a difendersi”, evitando di nominare l’aggressore nei titoli.
Il diritto internazionale umanitario è inequivocabile: l’articolo 79 del Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra riconosce i giornalisti come civili protetti. Colpirli deliberatamente è un crimine di guerra. Eppure, quaranta di quelli uccisi portavano addosso l’identificazione. La protezione non vale quando il bersaglio viene trasformato in “terrorista” da una didascalia o un post, cancellandone la legittimità professionale prima della vita stessa.
L’Ordine nazionale dei Giornalisti, in una nota diffusa l’11 agosto, ha definito «atto vile e spietato» l’ennesima uccisione deliberata di reporter a Gaza, denunciando l’uso della fame come arma di guerra, gli sfollamenti forzati e la distruzione delle infrastrutture civili e sanitarie. «Chiediamo al governo italiano e alle istituzioni europee un intervento deciso in difesa della libertà di informazione e del diritto internazionale e umanitario. 250 reporter assassinati non sono sufficienti?». Una domanda che non ha ancora ricevuto risposta.
C’è un tempo in cui il giornalismo deve scegliere se restare mestiere o diventare complicità. A Gaza, i cronisti locali scelgono ogni giorno la prima via, pagandola con la vita. Qui, troppi scelgono la seconda, travestendo da informazione la riproduzione di veline e insinuazioni. Delegittimare i colleghi uccisi significa dare una mano a chi li ha voluti morti. Non è più cronaca: è collaborazionismo.