La propaganda ha il fiato corto. Magnificare la patria può servire per scaldare i cuori poco prima di una tornata elettorale, affilare l’odio per gli avversari politici torna utile per i commenti sui social network, manganellare i fragili riempie le pance degli odiatori seriali, inscenare conferenze stampa senza stampa sfama al massimo qualche giornalista servile, torcere i numeri per magnificare una credibilità internazionale esalta solo i tifosi del proprio partito.
La politica è altro. La politica si impiglia nei calli delle persone che lavorano tutto il giorno per andare a letto la sera comunque poveri. L’Istat li chiama “occupati in condizioni di vulnerabilità economica” ma sono uomini e donne che faticano senza scrollarsi mai di dosso il senso del fallimento. La politica sta in mezzo al tavolo poco apparecchiato per la cena di famiglie che si impoveriscono nonostante con impegno continuino a fare quello che hanno sempre fatto ma sono più povere.
La politica se ne fotte dell’aporofobia di questo tempo, la paura dei poveri e della povertà che spinge i commentatori a fingere di non vedere. La politica – al contrario della propaganda – guarda in faccia i problemi, gli dà un nome, non ne ha paura. Dice l’Istat che la povertà in Italia si mangia il cuore di milioni di persone e famiglie vittime di una guerra ideologica che ha cancellato la povertà solo per poter dire di avere sconfitto gli avversari politici.
Scelte propagandistiche – appunto – e per niente politiche che sono state prese da una classe dirigente politica che ha lavorato poco, pochissimo, in vita sua, scambiando il mondo del lavoro con gli aperitivi della ristretta cerchia di imprenditori che possono bisbigliare all’orecchio del governo.
Se in una Repubblica fondata sul lavoro come mezzo per la libertà i lavoratori sono schiavi significa che la Costituzione è tradita fin dal suo primo articolo. Se la povertà in Italia è un affare degli occupati, oltre ai disoccupati, significa che la democrazia è una truffa elettorale. Propaganda, appunto.