L'Editoriale

La strada necessaria delle riforme

La strada delle riforme è difficile e politicamente rischiosa, perché cancella privilegi e rendite di posizione. Tradotto: può far perdere consenso. Ma se vogliamo far ripartire questo Paese non abbiamo altra possibilità che riformarlo profondamente e farlo in fretta. Per questo non possiamo più permetterci politici attenti solo ai sondaggi e agli indici di gradimento, ma ci vogliono statisti. E insieme, una rivoluzione culturale che non può essere delegata a chi sta al governo, ma deve entrare davvero nel carrello dei desideri di tutti noi. Dopo un anno di Renzi a Palazzo Chigi possiamo dirci soddisfatti delle riforme che abbiamo visto? Non sono poche e se guardiamo particolarmente agli ultimi anni sono anzi moltissime. Ma la qualità può accontentare giusto chi non ha ambizione e capacità di sognare un’Italia che torni a viaggiare alla velocità di cui può essere capace. La velocità che ha fatto diventare grande il Made in Italy nel mondo e che fino agli anni sessanta ha spinto il nostro boom economico. Uscivamo dalla devastazione di una guerra e c’era tutto da ricostruire, è vero, ma oggi non abbiamo altrettanto da fare in questo Paese che cade a pezzi? Non c’è da realizzare immense reti, da quelle immateriali della telefonia in fibra a quelle più tradizionali di autostrade e ferrovie? O possiamo essere soddisfatti di treni che al Sud vanno ancora a carbone e di intere regioni, come la Sicilia, con i collegamenti garantiti da un’unica strada? Facile poi indignarsi se questa strada viene pure chiusa per un crollo, ma lo scandalo è quello messo più plasticamente sotto i nostri occhi: un Paese industriale di strade deve averne in quantità, esattamente come i porti, gli aeroporti, i centri logistici. E non finisce qui. Le nostre città sono vecchie e in troppe parti brutte da morire, zeppe di immobili a scarsa efficienza energetica, con strade pericolose. A parte i centri storici giustamente tutelati, servirebbe una immensa rottamazione di questi obbrobri, indegni di un Paese che vuol vivere di turismo. Grandi progetti che avrebbero bisogno di montagne di soldi e decenni di lavori, ma se non si inizia mai a parlarne tutto questo resta illusione e il lavoro – il vero dramma di questi anni – una chimera. Perché il Jobs Act, gli 80 euro e le aggiustatine qua e là con cacciavite alla Letta sono meglio di niente, ma qui ormai l’ordinaria manutenzione serve a poco. In questo contesto l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ci dice che è stato un errore abbandonare l’ultimo sistema elettorale, quel Mattarellum che secondo Re Giorgio ha funzionato benissimo. Contento lui! Evidentemente il disastro economico, morale, intellettuale è un prezzo del destino e non di una classe politica inadeguata, quando non corrotta. È stata questa politica, debole e impreparata, a cedere moltissimo del suo potere alla burocrazia, ai boiardi e ai grandi manager di Stato, creando un vuoto immenso di responsabilità nel Paese. Qui nessuno risponde di niente. A Genova la polizia ha torturato i manifestanti? Il capo della polizia non c’entra niente. In Sicilia e Sardegna crollano le strade dell’Anas? I vertici restano gli stessi per decenni. E per fortuna che almeno ieri Ciucci ha sentito il bisogno di rimettere al ministro il suo mandato. Da un leader come Renzi, che deve il suo successo politico a parole d’ordine come rottamazione, qui però ci si aspettano segni di grande cambiamento. Segni che non vediamo. Possibile che tutto quello che c’era da rottamare sia già finito?