Com’era fin troppo facile prevedere, la svolta europeista di Matteo Salvini è durata da Natale a Santo Stefano. Giusto il tempo di piazzare i suoi ministri e sottosegretari nel governo Draghi – il nume tutelare dell’euro irreversibile – prima di tornare a sparare contro l’Unione. D’altra parte, avendo accettato di entrare in una maggioranza con tutti tranne la Meloni, almeno di un nemico aveva bisogno.
Ad alzargli la palla anche stavolta sono stati i suoi amici sovranisti austriaci, che portandosi dietro la Danimarca hanno rotto gli accordi di Bruxelles sull’acquisto centralizzato dei vaccini, per procurarseli da soli. Una soluzione perfetta, se non fosse che ieri l’idea migliore era quella di regalare centinaia di milioni alle imprese farmaceutiche nazionali per produrre i sieri a casa nostra.
Con la velocità del vento ora dunque si passa a chiedere aiuto ad Israele, ai russi o a San Marino, tanto se si fa propaganda sono lo stesso. L’importante è far dimenticare che dall’uscita di Conte da Palazzo Chigi è tutto fermo sul fronte dei ristori alle imprese. E chissenefrega se accusare l’Europa proprio mentre si va a discutere il Recovery Plan non è esattamente una mossa da statista.
Per non parlare della follia di rompere la piattaforma comune di acquisto dei vaccini, senza la quale oggi saremmo in un Far West, con i Paesi ricchi già interamente vaccinati e quelli poveri costretti ad aspettare chissà quanto, allargando la forbice della diseguaglianza tra le nazioni. Uno scenario dove l’Italia era destinata al fondo classifica, dietro tedeschi, francesi e Stati del Nord. Padania esclusa.