Hanno scelto l’alba e i blindati, come se in via Watteau ci fosse un covo, non una storia. Lo sgombero del Leoncavallo fotografa un’idea di ordine che scambia la scena per sostanza: sirene, quartiere barricato, il sindaco all’oscuro. Milano perde un pezzo della sua biografia civile, un presidio che ha tenuto aperte le porte alla cultura, alla socialità, all’antifascismo praticato.
Si invoca la «legalità» come un tamburo. La «legalità» vive di coerenza e misura, non di coreografie. Qui si è scelta la passerella muscolare, utile ai titoli, dannosa. Si poteva continuare il lavoro su regole e spazi condivisi; si è preferito offrire un trofeo al giorno dell’indignazione. Mentre le periferie chiedono servizi e presenza.
Il Leoncavallo non è un santino. È un laboratorio che ha attraversato decenni con concerti, teatro, mutualismo, e un’idea concreta di cittadinanza. Perfino un Premio Nobel. Anche chi non lo ama sa che quell’esperienza ha cucito relazioni dove la città si sfalda. Spegnere una luce così significa affidarsi alla retorica dell’ordine e rinunciare all’ordine reale: quello che si tiene giorno per giorno, senza sirene né proclami.
Poi c’è la doppia misura. Quando ad occupare è CasaPound, con l’abito del vittimismo d’ordinanza, la mano pubblica trema. Riservando un riguardo che contraddice ogni parola di un centrodestra di governo che si erge a paladino dell’«ordine». Si sgombera un centro sociale che produce cultura; si tollera chi coltiva simbologie e pratiche che la Costituzione ripudia. Il paradosso non è più un paradosso: è un metodo.
La verità è semplice: lo Stato è forte quando è giusto, non quando fa la voce grossa. Un governo che confonde il manganello col governo rinuncia a indicare un progetto urbano. Restano i sigilli, le foto, i post esultanti. Milano resta con una domanda: quale spazio pubblico vogliamo costruire, con quali regole e priorità? La città che ha memoria sa distinguere tra giustizia e spettacolo. Oggi, ha visto solo lo spettacolo di forza cieco.