Quando si parla di dazi e di Europa, l’Italia scopre sempre di essere l’ultima ruota del carro. Ma oggi lo schiaffo è doppio: arriva da Washington, che rilancia la guerra tariffaria a colpi di intimidazioni trumpiane, e da Dublino, che sotto il cappello della cooperazione europea continua a giocare per conto terzi. A danno nostro.
Tra le lettere firmate e spedite da Trump, per ora, non compare l’Ue: la resa dei conti è rinviata all’1 agosto. Nel mirino restano acciaio e alluminio (i dazi sono già al 50%), auto (già in vigore al 25%) e – soprattutto – agroalimentare (ma qui siamo ancora alle minacce). Il cuore dell’economia italiana. Bruxelles è divisa, le capitali litigano sulle contromisure, e Giorgia Meloni, con il solito mimetismo pavido, svanisce dal dibattito. Nessuna proposta, nessuna linea, nessuna voce. Le telefonate riservate del fine settimana – tra Meloni, Macron, Merz e von der Leyen – hanno prodotto solo una lista della spesa di buone intenzioni. Intanto i dazi rischiano di arrivare davvero.
E mentre gli agricoltori italiani guardano alle esportazioni che crollano e l’industria conta le perdite, l’Eurogruppo rilegittima Pascal Donohoe, il ministro irlandese delle Finanze che più di tutti ha offerto le chiavi fiscali dell’Europa alle multinazionali americane. Pfizer, Apple e Microsoft da sole garantiscono il 40% del gettito di Dublino, che in cambio consente alle corporation di aggirare la minimum tax globale, depotenziare la web tax e drogare i saldi commerciali a stelle e strisce. A perdere? L’Italia, che paga le tasse vere e subisce la concorrenza fiscale sleale di chi, come l’Irlanda, gioca a fare il cavallo di Troia della Casa Bianca.
Così, mentre Trump minaccia, Pechino si infila nella breccia e Dublino ingrassa le sue casse, l’Italia tace. Meloni osserva e incassa, come se questo non fosse anche il suo tempo e la sua responsabilità. Ma se i dazi colpiranno i settori strategici del nostro Paese, se l’export agricolo e farmaceutico italiano sarà sacrificato in nome del silenzio e delle convenienze, il conto politico non potrà essere demandato ai “tecnici” o alla burocrazia di Bruxelles. Sarà tutto, e solo, del suo governo. E non sarà più negoziabile.