Se l’Unione europea non fosse solo un’espressione geografica, molto peggio di come Metternich giudicava il pulviscolo dei nostri staterelli per buona parte dell’800, la lezione catalana l’avrebbe capita, eccome! Due milioni e mezzo di persone che vanno a votare a un referendum fuffa, fregandosene che è incostituzionale e sfidando i manganelli, non possono essere derubricati a una questione interna spagnola, come ha fatto ieri il portavoce della Commissione, rammaricato che si sia verificato qualche episodio di violenza.
Alla pari di una Maria Antonietta che non aveva capito niente della rivoluzione in arrivo, e proponeva di dare le brioche al popolo senza pane, i papaveri di Bruxelles guardano in tv la Catalogna convinti che tutto questo non li tocchi. Certo, in Italia decisioni più sagge hanno permesso alle pressioni rivendicazioniste di Lombardia e Veneto di sfogarsi in un referendum puramente simbolico, mentre i piccoli movimenti separatisti – dalla Sicilia alla Sardegna, fino al Veneto – non sono in grado di organizzare una rottura con lo Stato unitario tanto forte quanto quella catalana.
Il malessere che covava sotto la cenere adesso però è alla luce del sole, e rivela che l’incapacità delle élite nel gestire la globalizzazione ha creato un tale senso di precarietà da moltiplicare le spinte ad arroccarsi dentro ai propri gusci identitari, nella convinzione che questi possano reggere al disastro esterno della finanza, degli immigrati e di ogni male del mondo. Una difesa apparentemente epica, ma nei fatti del tutto illusoria.