L'Editoriale

L’ipocrisia della politica sulla mafia

L’ipocrisia della politica sulla mafia

Ognuno di noi ha dei ricordi che il tempo non rimuove dalla mente. Per me ci sono il 23 maggio 1992 le auto sventrate di Falcone e della scorta a Capaci, la figura pietrifica di Paolo Borsellino con la toga davanti alla bara il 24 e la rabbia dei palermitani il 25, a un funerale dove le massime cariche dello Stato furono contestate anche in chiesa, accusate di ipocrisia nella lotta alla mafia.

Solo qualche giorno prima, Falcone aveva rilasciato un’intervista a Repubblica denunciando di essere stato lasciato solo da quelle istituzioni che dietro il feretro piangevano, o fingevano di farlo.

Ecco, l’ipocrisia è il peccato più grave che la politica possa commettere nella lotta ai clan, e se ieri l’arresto di Matteo Messina Denaro è stato certamente un grande colpo per la Giustizia che ha abbattuto un simbolo di Cosa nostra, è un errore dimenticare che Falcone fu altrettanto la bandiera di chi ha dato tutto per sconfiggere le cosche.

Dunque non incantino quei politici che ieri festeggiavano, anche recandosi a Palermo, ma poi vogliono limitare le intercettazioni telefoniche, hanno preteso la legge Cartabia che consente di perseguire alcuni reati di mafiosi solo su querela, non hanno trovato nemmeno il tempo per eleggere la Commissione Antimafia, o chiedono di cancellare l’ergastolo ostativo, cioè rimettere in libertà persino Messina Denaro se ne avrà il tempo, o comunque i suoi scagnozzi.

Troppo facile, perciò, dirsi nemici della mafia o complimentarsi con la Procura e i carabinieri, se poi in Parlamento si fanno regali alla parte opposta.

 

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