L’assenza di Giorgia Meloni al vertice dei “volenterosi” per Kiev ha fatto rumore. Non tanto per la sua partecipazione in video, quanto per la reazione stizzita di Antonio Tajani. “Chiedete a lei”, ha detto il ministro degli Esteri ai cronisti che domandavano conto della mancata presenza fisica della premier. In quel gelo diplomatico c’è tutta la fotografia di un governo che mostra la vetrina dell’unità ma continua a incrinarsi sotto la superficie.
Tajani ha provato a tamponare il caso con frasi rassicuranti – “l’Italia c’era” – ma intanto ha scelto un’altra frase, più netta: “Non sto in un governo anti Ue”. Una dichiarazione che pesa, e che sembra più un messaggio a Meloni che ai partner europei. Perché in quella coalizione a tre, dove i leader si contendono lo stesso palcoscenico, le crepe non sono episodiche: sono sistemiche.
L’alleanza delle distanze
Dall’insediamento del governo, le differenze tra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si sono espresse su quasi tutti i fronti: politica estera, riforme istituzionali, strategia economica, posizionamento europeo. Meloni cerca il profilo da statista, Salvini gioca di sponda populista, Tajani prova a tenere un perimetro moderato. I vertici settimanali, le foto di rito, le smentite ufficiali non bastano più a mascherare le tensioni, che esplodono puntualmente ogni volta che la premier cerca una linea autonoma.
Sul fronte internazionale, Meloni tenta un difficile equilibrio tra la fedeltà atlantista e la volontà di distinguersi dagli esecutivi precedenti. Ma paga la necessità di mediare tra un Tajani che custodisce gelosamente il pedigree europeista del PPE e un Salvini che flirta con Trump e sogna dazi bilaterali. L’episodio di Kiev ha solo cristallizzato un malessere già in circolo: la premier non può permettersi passi falsi, ma non può nemmeno permettersi un Tajani che si smarca troppo.
La doppia politica estera
Il governo parla spesso con due voci. Una ufficiale, incarnata da Meloni e Tajani, che difende la coerenza europeista e il sostegno all’Ucraina. L’altra parallela, tutta affidata a Salvini, che colleziona telefonate a Washington e critiche a Bruxelles. Il risultato è una diplomazia schizofrenica che confonde alleati e osservatori. Tajani, esasperato, ha più volte ricordato che “la politica estera si fa con una voce sola, altrimenti si diventa lo zimbello delle cancellerie”. Meloni lo sa, e per questo avrebbe minacciato Salvini di svuotargli il partito. Se sia vero o no, poco importa: è il clima che conta.
Una forza apparente, una fragilità reale
La stabilità apparente del governo Meloni è anche figlia dell’inconsistenza dell’opposizione. I partiti che dovrebbero incalzare l’esecutivo sono divisi su tutto: su Gaza, sul lavoro, persino sul referendum contro l’autonomia differenziata. Mentre il centrodestra si azzuffa ma governa, il centrosinistra alterna appelli all’unità e lettere in dissenso. Le tensioni dentro l’esecutivo sarebbero un’occasione politica evidente, ma nessuno riesce ad approfittarne. Così Meloni può permettersi di tirare la corda, Salvini di giocare di sponda, Tajani di dissociarsi a mezza voce: l’alternativa non c’è.
La polemica interna al Pd sull’astensione referendaria, il balbettio del M5S su ogni questione internazionale, le ambiguità sul MES e sul PNRR impediscono di trasformare le fragilità del governo in un’alternativa di governo. Questo squilibrio offre a Meloni un margine insperato: può gestire un’alleanza instabile con la certezza che fuori dal perimetro non c’è minaccia reale. Il problema è che nel vuoto dell’opposizione, il confronto politico si appiattisce sulle contraddizioni del potere, senza che nessuno ne tragga conseguenze elettorali.
Riforme a ostacoli e riformulazioni continue
Le riforme istituzionali sono il terreno dove l’equilibrismo della premier rischia di crollare. Il premierato voluto da Meloni è ostaggio dell’autonomia differenziata imposta da Salvini. Forza Italia, con Tajani, tiene il freno a mano, appellandosi ai rilievi della Corte Costituzionale. Si avanza per baratti incrociati: una riforma per l’altra, un comma per un appoggio. Il risultato è una paralisi lucida, in cui nessuno osa rompere, ma ognuno minaccia di farlo.
Anche sulla giustizia e sui diritti civili la coalizione si muove come un corpo a tre teste: Tajani difende le toghe, Salvini tuona contro le intercettazioni, Meloni lascia fare a Nordio. La legge sull’utero in affitto come reato universale ha mostrato l’allineamento conservatore del governo, ma anche lì Forza Italia si è fatta vedere solo per il voto. Marina Berlusconi ha provato a spingere sul fine vita: silenzio, o peggio, sarcasmo.
Un governo condizionato
Il caso Kiev ha rivelato un aspetto cruciale: Meloni è forte finché gli altri glielo permettono. Forza Italia ha fatto capire che c’è un limite alle torsioni anti-Ue, Salvini usa ogni margine per riaffermare la propria identità. La premier tiene insieme la coalizione con una miscela di controllo e minaccia. Ma sa che ogni divergenza può diventare una leva. E che Tajani non è più disposto a coprirle tutte.
Dietro ogni foto di gruppo ci sono tre agende elettorali, tre diplomazie parallele, tre idee diverse di cosa significhi governare. Più che una coalizione, una tregua permanente. Fino al prossimo vertice. Fino al prossimo “Chiedete a lei”.