L'Editoriale

Pacificatore immaginario

Aveva promesso pace in 24 ore. Ma nel suo secondo mandato Trump ha solo alimentato crisi, minacciato guerre e isolato l’America.

Pacificatore immaginario

Nel maggio 2023, in una delle sue ennesime performance da salotto televisivo, Donald Trump dichiarava: “Se fossi presidente, la guerra in Ucraina la chiuderei in 24 ore”. Lo ripeté più volte, alzando il volume a ogni comizio. Poi, davanti alle prime obiezioni, fece retromarcia: “Era sarcasmo”, disse. E fu solo l’inizio.

Dopo il ritorno alla Casa Bianca, quella promessa si è scontrata con le sue stesse scelte. Anziché smorzare i conflitti, Trump li ha alimentati: con dichiarazioni incendiarie, con manovre che isolano gli alleati, con un uso spregiudicato della minaccia militare come strumento di politica interna.

Ucraina: retorica da paciere, azioni da sabotatore

Nel secondo mandato Trump ha intensificato una linea ambigua: da un lato dichiara che “vuole che smettano di morire tutti”, dall’altro blocca o minaccia di sospendere gli aiuti militari a Kiev, accusa Zelensky di “non voler la pace” e si presenta come mediatore neutrale, dopo aver definito Putin “intelligente” e “strategico”.

La Casa Bianca trumpiana ha trattato l’Ucraina come una variabile negoziabile, mettendo pressioni sul governo di Kyev e legittimando indirettamente le pretese territoriali russe. Altro che neutralità: qui si tratta di logiche transazionali, con il destino di un popolo ridotto a leva elettorale.

Iran: la minaccia permanente

Con l’Iran, Trump ha scelto la linea dura a prescindere da ogni contesto. Evoca “bombardamenti come non si sono mai visti” in caso di mancato accordo nucleare, rilanciando la retorica dell’“obbligo alla resa incondizionata”.

In questi giorni di scontro tra Israele e Teheran, continua a oscillare tra sostegno cieco a Tel Aviv e vaghe promesse di contenimento. Il risultato è stata una crescita esponenziale del rischio bellico, con gli Stati Uniti coinvolti in operazioni militari mirate contro milizie filo-iraniane. A oggi, nessun negoziato è in corso. Solo ultimatum.

Siria: una diplomazia improvvisata

Il 13 maggio 2025, Trump ha annunciato la revoca delle sanzioni economiche alla Siria, su richiesta dell’Arabia Saudita. Nessun dibattito pubblico, nessun passaggio multilaterale. Un’inversione a U improvvisa che ha allarmato anche gli alleati più cauti. La motivazione? Ricostruire rapporti con il nuovo presidente siriano. La conseguenza? Instabilità, ulteriore legittimazione di un regime autoritario e nuovi margini di manovra per Teheran nella regione.

Ancora una volta, l’approccio trumpiano si è mostrato fondato sulla convenienza tattica, non su una strategia diplomatica coerente.

Corea del Nord: tregua di facciata, arsenali attivi

Durante l’attuale mandato, Trump ha ripreso i contatti diretti con Kim Jong-un, rilanciando l’illusione di un dialogo personale risolutore. Ma mentre gli incontri bilaterali si accumulano, i test missilistici nordcoreani proseguono indisturbati. La denuclearizzazione non è nemmeno più sul tavolo. La minaccia si è solo normalizzata, mentre l’apparato propagandistico trumpiano rivende ogni telefonata con Pyongyang come “diplomazia efficace”.

Una guerra che parte da casa

Se all’estero Trump agita le armi, in patria ha riaperto le faglie sociali. Nel secondo mandato ha ripreso a definire i manifestanti “teppisti”, ha parlato di “nemici interni” e ha flirtato con gruppi armati e milizie estreme. Le parole contano, e Trump lo sa: ogni comizio diventa una dichiarazione di guerra culturale. La sua è una pace di facciata, fondata sull’idea che il silenzio degli avversari equivalga a concordia.

Nessun conflitto risolto, molti ravvivati

Nel nuovo ciclo presidenziale, Trump non ha portato la pace in nessun teatro di crisi. Ha irrigidito l’Ucraina, infiammato l’Iran, isolato la Siria, vanificato ogni dialogo con la Corea del Nord e raddoppiato la polarizzazione interna. Le sue parole restano in bilico tra minaccia e messinscena. E la “pace in 24 ore” è diventata la più crudele delle provocazioni.