In politica i numeri contano, ma non bastano a tutto. Ieri, digerita la larga vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie del Pd, prima Roberto Fico e poi Luigi Di Maio hanno inviato segnali di fumo al neo segretario. Mentre le congratulazioni spedite dal primo sono state subito lette come la disponibilità a riaprire un dialogo finito prima ancora di cominciare ai tempi delle consultazioni per formare l’attuale governo, il leader politico dei 5 Stelle è stato invece più concreto, mettendo alla prova il nuovo timoniere dem su una questione in teoria centrale per la Sinistra: il salario minimo.
Un’offerta che ha suscitato la provocatoria reazione dei renziani Serracchiani e Marcucci, che hanno chiesto al Movimento di accodarsi a una loro proposta di legge, mostrando così quanto sarà dura per il governatore del Lazio de-renzizzare sul serio un partito dove l’ex premier continua – almeno per il momento – a controllare i gruppi parlamentari. Anche per questo i numeri, che nei sogni di qualcuno potrebbero consentire un clamoroso cambio di cavallo, con la caduta dell’attuale governo e la composizione in Parlamento di un nuovo Esecutivo sostenuto da M5S e Pd, come dicevamo, da soli non bastano.
I consiglieri dei pentastellati, con in testa Marco Travaglio, sono arrivati a rispolverare persino la teoria dei due forni, con cui trasse massimo beneficio la Lega di Umberto Bossi, giusto per pudore di non riesumare il prototipo di maggior successo di quello stesso meccanismo: il Psi di Bettino Craxi. L’argomento principe di chi vorrebbe il ribaltone è che il nuovo Pd guidato da Zingaretti è adesso un soggetto affidabile e degno di un’alleanza che ai tempi di Renzi, Boschi e Bonifazi al comando era improponibile. Ma Renzi, Boschi, Bonifazi e tutti i loro amici sono parlamentari del Pd e dunque in caso di accordo entrerebbero automaticamente in una maggioranza che non li vuole e che loro stessi non vogliono.
Una situazione paradossale visto che, a quanto pare, lorsignori al momento non rivelano nessuna concreta intenzione di sloggiare per lanciarsi in nuove avventure, come un loro partitello in stile En Marche! di Macron. Un addio che in ogni caso, seppure avvenisse, non cambierebbe di una virgola il Dna dell’attuale Pd, che i Cinque Stelle hanno sempre denunciato e combattuto. Come si fa perciò a sostenere che il contratto con Salvini sta facendo perdere voti a Di Maio e C. mentre l’accordo con il Pd ne farebbe guadagnare o quanto meno fermare l’attuale discesa?
Una risposta in questo senso non c’è, mentre c’è invece la certezza che l’eventuale fine del Governo Conte lascerebbe a metà il lavoro di un anno intero, e soprattutto avrebbe pochissime possibilità di appassionare il popolo dei 5S, che dovrebbero sentirsi accusare di aver salvato la poltrona grazie a un’operazione di Palazzo.
Siamo di fronte, insomma, a un cattivo consiglio che porta di nascosto un gigantesco pericolo.
Semmai il governo gialloverde cadesse e quello giallorosso non riuscisse a nascere, o una volta nato cadesse rapidamente, alle successive elezioni si lascerebbe con quasi assoluta certezza la guida del Paese al Centrodestra, e le politiche di Salvini che oggi sono mitigate dentro un contratto firmato da due leader fino a oggi leali finirebbero per potersi sviluppare liberamente, accentuando quelle forzature su sicurezza, gestione dei migranti, autonomia e molto altro ancora che oggi sono impedite dai Cinque Stelle.
Perciò Di Maio e Zingaretti fanno bene a parlarsi, magari per combinare insieme qualcosa di buono per il Paese, ma su certi sogni di giravolte è bene ragionarci bene e magari tenerli nel cassetto se non si vuole correre il rischio che si trasformino in incubi.