L'Editoriale

Un cessate il fuoco bugiardo

Un cessate il fuoco bugiardo

Ovviamente ci speriamo tutti. Un cessate il fuoco è una boccata di ossigeno per un popolo martoriato da un genocidio e l’idea di una pace futura sarebbe un enorme risultato umanitario, prima che politico. Ma bisogna essere onesti, non bisogna fingere di non vedere.

Il piano di pace annunciato da Donald Trump nasce come accordo bilaterale tra Stati Uniti e Israele, con Hamas davanti a un ultimatum: ostaggi da consegnare in 72 ore in cambio di 1.950 detenuti palestinesi. Prevede venti punti, ritiro dell’Idf in tre fasi e riapertura di valichi, porto e aeroporto. Nel testo i tempi sono vaghi, le verifiche assenti, le sanzioni inesistenti: lo spazio aereo e le acque restano in mano israeliana.

La governance è il cuore del problema. La ricostruzione viene consegnata a un “Consiglio della Pace” guidato da Tony Blair e da figure esterne, senza reali rappresentanti palestinesi. Un fondo da quaranta miliardi, finanziato da Usa, Ue e Paesi del Golfo, trasforma Gaza in una zona economica speciale amministrata dall’alto. È la pace del business: contratti e appalti prima dei diritti, tecnocrati prima dei cittadini, custodi armati a vigilare i confini.

Nel documento non c’è alcun meccanismo di giustizia. Nessuna indagine sui crimini di guerra, nessuna responsabilità, nessuna verità sul numero reale delle vittime. Diversi rapporti stimano oltre trecentomila vittime in due anni. E intanto, mentre i comunicati celebrano la svolta, le operazioni militari proseguono: dall’annuncio si contano altre vittime.

In Israele il piano divide: il presidente Herzog lo benedice, l’estrema destra lo osteggia, l’opposizione accusa Netanyahu di rinviare il giudizio interno. A Gaza prevale una sola parola: diffidenza. Si può respirare, ma si resta sotto tutela. E finché i confini, l’aria e il mare dipenderanno dalla volontà dell’occupante, la tregua sarà un intermezzo, non un approdo.

Allora sì, cessate il fuoco. Ma una pace che non restituisce sovranità e giustizia è solo una pausa della guerra. È questo che oggi viene chiesto di applaudire: il silenzio organizzato sopra le macerie, con i vivi conteggiati come una variabile del progetto. Per Gaza la speranza esiste, purché abbia la forma della libertà e del diritto. Tutto il resto è amministrazione del dolore.