C’è una singolare coincidenza temporale tra i raid israeliani e le vicende processuali del premier Benjamin Netanyahu. Il 9 settembre scorso, giorno del bombardamento in Qatar – che aveva come obiettivo dichiarato (e mancato) i negoziatori di Hamas, riuniti a Doha per discutere il piano di pace americano – il primo ministro ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra era atteso in un altro tribunale, a Tel Aviv.
Avrebbe dovuto testimoniare nel processo che lo vede imputato in relazione al caso relativo al produttore cinematografico Arnon Milchan, accusato di aver cercato di ottenere un visto statunitense di lunga durata proprio con l’aiuto di Netanyahu. Non se ne fece nulla. Ieri, il premier israeliano è comparso di nuovo davanti ai giudici. Giusto il tempo di chiarire che, nel giorno dell’offensiva finale su Gaza, non poteva certo perdersi in quisquilie. Tipo le sue grane giudiziarie, ovvero i tre distinti procedimenti giudiziari nei quali è accusato di corruzione, frode e abuso d’ufficio.
Ma tanto è bastato per assicurarsi l’ennesimo rinvio. E tirare ancora a campare, sulla pelle dei palestinesi. Finché c’è guerra c’è speranza, verrebbe da dire. Se solo quella nella Striscia di Gaza fosse una guerra. Invece sul campo c’è soltanto un esercito, quello israeliano, che ha già sterminato oltre 60mila civili inermi. Un genocidio che per Netanyahu è una manna dal cielo. Gli allunga la vita (politica) e lo tiene al riparo dai giudici.