L'Editoriale

Un giusto segnale alle imprese

Un giusto segnale alle imprese

Ora che ne ha meno bisogno, chissà quando Beppe Grillo offrirà una delle sue pastiglie di Maalox a Vincenzo Boccia e tutto il blasonato stato maggiore della Confindustria. Aver visto il leader dei Cinque Stelle Luigi Di Maio che promette mari e monti all’assemblea della Confcommercio, mentre alla stessa messa cantata degli industriali c’è andato solo il vecchio governo Pd in una pausa del trasloco dai Palazzi del potere, deve aver provocato non pochi bruciori di stomaco. Il fatto, anche simbolicamente rilevante, che la nuova politica guardi con più attenzione al vero motore economico del Paese, che è fatto essenzialmente di piccole imprese, è già di per se una rivoluzione in quella gerarchia di interlocuzione con l’Esecutivo rimasta per decenni imbalsamata agli ordini della Fiat e degli altri pochi campioni dell’industria nazionale. Poi c’è il merito delle cose dette ieri da Di Maio. Cose che vanno bene all’Italia intera e di conseguenza alle imprese grandi e piccole. L’impegno a non far scattare le clausole di salvaguardia sul deficit, a partire dall’aumento dell’Iva, era già stato preso nel contratto di M5S e Lega. Sentir dare dal ministro di Lavoro e Sviluppo la sua parola d’onore ha però rassicurato i commercianti e tutti coloro che potrebbero non reggere a una tale misura recessiva. Infatti, il terreno nel quale hanno cominciato a muoversi Conte e la sua squadra non è affatto incantato come ce l’hanno beffardamente rappresentato nella scorsa legislatura. L ’Italia è cresciuta meno di tutti gli altri Paesi in Europa, e questo non è stato affatto merito delle politiche interne o delle riforme mediocri che abbiamo adottato. Senza la gigantesca immissione di liquidità monetaria e il massiccio acquisto di titoli del nostro debito pubblico da parte della Banca centrale europea, il nostro Pil nazionale sarebbe rimasto molto lontano dal +1,5% dell’anno scorso, che è comunque un dato insufficiente per far ripartire sul serio l’economia e il lavoro. Questa pacchia – e qui la parola pacchia non è usata a caso – ormai comunque sta finendo. Il costo del denaro è destinato ad aumentare e la Bce sta per dire stop a una politica monetaria accomodante sempre più apertamente contrastata da Berlino. Dunque di motivi per preoccuparsi ce ne sono abbastanza, ma se tutto questo non bastasse ecco che proprio ieri è arrivato il dato dell’Istat sulle vendite al dettaglio nel nostro Paese, dove si stima un calo ad aprile dello 0,7% rispetto al mese precedente, con una contrazione totale su base annua di quasi il 5%. Tradotto in parole semplici: i consumi in Italia restano al palo e se la gente compra di meno è inevitabile che arretri anche la produzione. Siamo davanti, in sostanza, a uno scenario economico fragilissimo: esattamente l’ideale per far partire una nuova tempesta dei mercati finanziari grazie al solito giochino dello spread. NON PERDERE TEMPO Diventa quindi urgentissimo spezzare i vincoli che hanno imprigionato la crescita e le imprese, rinegoziando se non il debito almeno i trattati con l’Europa. Operazioni non semplici, né veloci, in attesa delle quali si può però cominciare a far qualcosa. E dare sicurezza e certezze alle imprese è una di queste mosse. Di Maio, esattamente come fa da tempo anche Salvini, ha iniziato a invertire un curioso meccanismo per cui chi crea reddito per se e per gli altri è un evasore fiscale fino a prova contraria invece che un cittadino onesto fin quando non si provi tutt’altro. Un cambio di visione del nostro tessuto imprenditoriale, mortificato e brutalmente scoraggiato da una filosofia nemica della cultura del fare. Tra vessazioni fiscali da un lato e una retrocessione sociale degli imprenditori dall’altro, nel nostro Paese per molti è passato il messaggio che conviene stare a casa ad oziare. Esattamente quello che qualcuno potrebbe pensare di fare anche col sostegno dello Stato, sfruttando quel reddito di cittadinanza che si è cercato di far passare come una forma di puro assistenzialismo ai fannulloni. Bene, le cose non stanno così o perlomeno l’intenzione è molto distante. Abolire strumenti inquisitori come lo spesometro e il redditometro non vuol dire derogare al contrasto sull’evasione fiscale, ma far lavorare e produrre tutti più sereni. La precondizione per far ripartire l’economia.