A mille giorni dall’insediamento, il governo Meloni può vantare una longevità inusuale nella storia repubblicana. Ma la stabilità, da sola, non garantisce qualità. L’analisi dei dati raccolti da Openpolis restituisce un bilancio che smentisce i toni trionfalistici. Il governo ha fatto ampio ricorso allo strumento del decreto-legge: 103 in totale, di cui 86 convertiti e 11 decaduti. È il numero più alto tra le ultime legislature, con una media mensile di 3,09.
Ma il dato più significativo riguarda i voti di fiducia: 94 in tutto, distribuiti in 54 alla Camera e 40 al Senato. Una strategia sistematica per comprimere il dibattito parlamentare e neutralizzare qualsiasi dissenso interno. Anche la tanto sbandierata coesione di maggioranza si regge più sull’uso di vincoli procedurali che su un’effettiva sintonia politica: l’indice di compattezza parlamentare si ferma al 72,6% alla Camera e al 64,8% al Senato. L’azione legislativa si è poi arenata sul versante dell’attuazione: il 43% dei decreti attuativi necessari per rendere operative le leggi è ancora da adottare. Ciò significa miliardi di euro già stanziati ma non spendibili, per mancanza delle regole applicative.
Solo alla Presidenza del Consiglio sono bloccati quasi 3 miliardi. La paralisi riguarda tutti i ministeri: dalla salute al lavoro, dall’agricoltura all’ambiente. Quanto alle riforme costituzionali annunciate come pilastri identitari, solo l’autonomia differenziata ha completato l’iter. Il premierato è fermo alla Camera dopo il primo voto al Senato, mentre la separazione delle carriere in magistratura è ancora in corso. Il governo guidato da Meloni, insomma, ha costruito il proprio consenso più sulla messa in scena dell’efficienza che sulla reale efficacia delle sue politiche.
Mille giorni dopo, le leggi non producono effetti, il Parlamento è svuotato, la retorica del cambiamento si misura in decreti ancora incompiuti. La promessa di “fare presto e bene” ha generato un sistema dove si fa tanto, si approva in fretta, ma si realizza poco e spesso anche male.