Le perizie diranno se il crollo della funivia del Mottarone è un nuovo caso Morandi, cioè il frutto di manutenzioni sommarie per mettere più utili in tasca al gestore, pubblico o privato che sia. Il disastro che lascia 14 morti e una pubblicità internazionale terribile per il nostro turismo, ci dice però anche un’altra cosa.
A meno di sorprese, tra breve cominceranno ad arrivare i soldi del Recovery Plan, con i quali dovremo realizzare quante più opere strategiche per la crescita del Paese. Fanno parte della lista strade, ferrovie, ponti, dighe, ecc. Ma l’Italia è piena di infrastrutture esistenti da cinquanta e passa anni, che non dispongono delle più moderne tecnologie e misure di sicurezza.
Senza rinunciare ai grandi cantieri di cui c’è bisogno, il Recovery potrebbe essere l’occasione irripetibile per un piano straordinario di sostituzione delle opere più datate, che indipendentemente dalla manutenzione sono destinate a diventare più pericolose anche per l’usura. Inserire nel Recovery queste infrastrutture comporterà la rinuncia a qualche disegno faraonico e di dubbio ritorno economico, come il ponte di Messina di cui si è tornato a parlare.
Ma una politica seria dovrebbe aspirare a qualche taglio di nastro in meno e a dosi di sicurezza in più per tutti i cittadini. Difendere il territorio dalla fragilità idrogeologica, per esempio, darà meno ritorno d’immagine di tante cattedrali nel deserto, ma in aree a rischio di frane e alluvioni come sono molte nostre regioni è determinate per non tornare a piangere altre vittime non del Fato, ma di scelte colpevolmente sbagliate.