L'Editoriale

Un’inchiesta a due passi dal Quirinale

L’inchiesta su Mafia Capitale è sacrosanta, già zeppa di riscontri e tutt’altro che la bufala di cui preconcettualmente hanno parlato bravi giornalisti come Giuliano Ferrara o Piero Sansonetti. Il livello della corruzione a Roma era vastissimo e certi colleghi, oltre che essere garantisti con gli indagati, dovrebbero esserlo altrettanto con i cittadini traditi. A Roma si sono sperperate enormi risorse in cambio di servizi penosi. E soprattutto si è permesso a una consorteria che lega a doppio filo pezzi del ceto amministrativo, manager pubblici, portaborse di politici e personaggi di primo piano dei partiti insieme a criminali comuni ed esponenti dell’eversione nera. Una bella schifezza e chi non si indigna ha quantomeno qualche problema con il proprio livello di tollerabilità etica al malaffare. Fatta questa premessa, l’inchiesta – come ogni grande caso giudiziario agli inizi – sta mostrando un punto debole e un pericolo grandissimo. Il punto debole è il fondersi in un’unica melassa di notizie vere e verosimili insieme a millanterie e bugie raccontate palesemente per denigrare l’avversario politico.

La storia data ieri con grandissimo risalto dai maggiori quotidiani nazionali, che titolavano su presunte valige piene di soldi portate da Gianni Alemanno in Argentina, è emblematica. I giornali, a cominciare dal Corriere della Sera e Repubblica, prendevano per oro colato le confidenze di un signore adesso in carcere, Luca Odevaine, al telefono con altri due indagati, Mario Schina e Sandro Coltelacci. Le loro supposizioni, certamente inquietanti, erano però talmente prive di fondamento da costringere la Procura di Roma a specificare in un comunicato che su queste ipotesi non c’è nessun riscontro. In realtà, proprio chi scrive un riscontro l’aveva fornito poco prima intervenendo a una trasmissione televisiva de La7, per il semplice fatto di essere stato testimone oculare dell’arrivo di Alemanno a Buenos Aires in quella breve vacanza argentina. Alemanno non aveva che il suo normale bagaglio e poiché ci si recava direttamente in Patagonia, o ha seppellito quel presunto denaro in una buca dei ghiacciai millenari oppure semplicemente Odevaine raccontava ai suoi amici una bufala. Il lavoro del giornalista, che non esclude avere amicizia e frequentazioni con personaggi che fanno anche politica (che miseria chi pensa il contrario!) impone di raccontare i fatti, senza scegliere ideologicamente derive giustizialiste o garantiste. Se chi scrive è assolutamente convinto della necessità di andare avanti in questa inchiesta, lo è altrettanto sulla necessità che emerga la verità e non le illazioni di personaggi più o meno credibili al telefono.

COME TANGENTOPOLI

Il punto debole dell’intera vicenda sta dunque nell’intrecciarsi di notizie vere e di panzane che alla fine hanno l’effetto di smontare tutto. C’è poi il pericolo grandissimo di cui si parlava prima. Questo pericolo è quello di gonfiare a tal punto l’inchiesta da farne non una giusta indagine sulle responsabilità di chi ha commesso i reati contestati, ma un vero e proprio caso nazionale dal quale ripartire per tornare al clima del ’93, quello di Tangentopoli. A sottolinearlo è lo stesso capo dell’autorità anti corruzione, Raffaele Cantone, ieri in un’intervista su Repubblica. Un clima fatto del mix tra inchieste ed enfasi dei giornali, che alla fine darà il colpo di grazia alla credibilità della politica, delegittimandone il ceto e magari tirando la volata a un magistrato al Quirinale. E qui non è un segreto che nell’attuale scarsa agibilità della politica il prossimo presidente della Repubblica potrebbe essere quel Piero Grasso, ex apprezzato collega del Procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Ma avere sul Colle Grasso, persona degnissima sia ben chiaro, non significherebbe solo accettare un pieno ruolo di supplenza della magistratura sulla politica, bensì la resa stessa della politica alla magistratura. E in un Paese dove le istituzioni sono decadenti, negare a monte la separazione dei poteri (legislativo e giudiziario) ci proietterebbe inevitabilmente verso uno Stato di polizia. Forse non la peggiore delle ipotesi di fronte allo sfascio totale, ma sicuramente una sconfitta imperdonabile per chi ha di questo Paese ancora una visione liberale, di legittimità e separatezza dei poteri.