Fabrizio Corona ora fa il guru dal carcere

Da “Vanity Fair”

Fabrizio Corona parla in esclusiva dal carcere con Vanity Fair – sul numero in edicola da mercoledì 22 gennaio – dopo l’uscita del suo libro autobiografico, “Mea Culpa” (Mondadori).
Il libro si apre con la sua fuga in Portogallo. Lo rifarebbe?

«No. Ho perso la fiducia dei magistrati e la mia credibilità. Anche se il mio non è stato un vero tentativo di evasione. Come si può pensare di fuggire a bordo di una 500 con 300 euro in tasca, rinunciando a tutto, mio figlio, il mio ufficio, la mia famiglia?».

A proposito di quei giorni, descrive quel periodo come l’unico della sua vita in cui sia stato veramente libero. Anche stare in carcere, lontano dagli impegni, dai riflettori, la fa sentire, paradossalmente, più libero?

«Sì. Sono riuscito a fermarmi, ad avere il tempo di riflettere. Non voglio sembrare drammatico, ma se non fossi finito in prigione, sarei potuto morire. Ero ossessionato dal successo, dai soldi. Dovevo avere le donne più belle, il fisico più scolpito, il look più alla moda. Volevo una vita perfetta e avevo il terrore di perdere tutto. E così mi ammazzavo di lavoro, incontri, appuntamenti, palestra. Il chirurgo mi aiutava a fermare il tempo, le sostanze chimiche mi davano una mano a reggere. Mi riempivo di pillole: pillole per allenarmi, per fare l’amore, per dormire».

Il libro l’ha finito l’estate scorsa. Nel frattempo che cosa è cambiato?

«Dopo un anno di carcere, mi guardo allo specchio e mi vedo diverso. Ho i capelli lunghi e ricci, la barba curata, ho perso molti denti, sono dimagrito, la mia faccia non ha più quel gonfiore chimico». Tra i luoghi comuni sulla realtà carceraria ci sono le molestie sessuali. «Una farsa da film americani. La verità è che l’omosessualità è un tabù assoluto. I gay stanno separati dagli altri detenuti, insieme con i pedofili e gli zingari».

Le manca il sesso?

«Ne ho fatto così tanto prima del mio arresto che quasi avevo la nausea. Quello che mi mancano solo le emozioni».

Tra le molte lettere di cui è composto il libro, ce n’è una indirizzata a Matteo Renzi. Gli dice che dovrebbe curare di più la forma fisica. Davvero pensa che sia importante per un politico avere un corpo tonico?

«No, non lo è. Lui però dovrebbe averlo, sennò vuol dire che ci sta prendendo in giro. Ma come, uno che dà tanta importanza all’immagine se ne va al Quirinale con la giacca azzurra, dalla De Filippi col chiodo, usa la canzone I Love It come colonna sonora dei suoi eventi? La pancetta di Renzi è la metafora del politico che nasconde i difetti sotto una perfezione apparente. E non lo dico per egoismo, anche se mi ha deluso quando si è schierato contro l’amnistia. Non la pensava così nel 2005, quando la definiva “un impegno civile e sociale”. E neppure nel 2012, quando firmò una lettera di solidarietà a Marco Pannella. Matteo, se credi che sia giusto difendere i deboli e le persone che soffrono, non nasconderlo come fai con la pancia. Anche e magari non aiuta a vincere le elezioni».

In un brano del suo libro scrive: «Lo stesso giudice che mi ha condannato in primo grado a Milano nel processo di Vallettopoli ha condannato a 7 anni Silvio Berlusconi per il caso Ruby».

«Trovo le sentenze nei confronti di Berlusconi assurde, come le condanne di Lele e di Nicole (rispettivamente, Mora e Minetti, ndr). Lo dico perché quel mondo e le donne che ci ruotavano intorno lo conosco molto bene. Per il resto, con Berlusconi mi accomuna solo una cosa: entrambi abbiamo esagerato con le accuse nei confronti della magistratura. Difendersi è giusto, ma bisogna sempre rispettare i ruoli e le regole. Altrimenti ne paghi le conseguenze: l’ho imparato molto bene».