Fassina: “Sul lavoro c’è poco da brindare. Cresce ma con paghe da fame”

Parla l’economista ed ex viceministro, Stefano Fassina: "Se gli occupati salgono col Pil fermo non è buon segno".

Fassina: “Sul lavoro c’è poco da brindare. Cresce ma con paghe da fame”

Cresce l’occupazione anche a dicembre. Ma guardando i numeri dell’Istat emerge come, rispetto al mese precedente, a far da traino siano i dipendenti a termine e gli autonomi. Peraltro per “occupati” si intendono anche coloro che nella settimana di riferimento abbiano lavorato almeno un’ora. Stefano Fassina, economista ed ex viceministro dell’Economia del governo Letta, oggi presidente dell’associazione Patria e Costituzione, che ne pensa?
“I dati sull’occupazione da tanti anni non posso essere letti secondo il vocabolario fordista. Allora, un posto di lavoro voleva dire una retribuzione decente, in genere ‘proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa’, come prescrive l’Art. 36 della nostra Costituzione. Voleva dire stabilità, possibilità di contrarre un mutuo, acquistare casa, metter su famiglia. Voleva dire salario indiretto grazie al welfare universale, a cominciare dalla Sanità pubblica. Da tempo, invece, il ‘posto di lavoro’ implica una retribuzione povera, una condizione di strutturale precarietà, in un quadro di rattrappimento dei servizi sociali, a cominciare dal Servizio Sanitario Nazionale. Quindi, è necessario entrare nel merito dei dati. I numeri del mese di Dicembre hanno la qualità negativa che ha ricordato. Ma va sottolineato anche un altro aspetto. Guardiamo all’intero 2023: risultati apparentemente positivi: l’occupazione aumenta del 2%. Ma il Pil sale soltanto dello 0,7%. Allora, poiché la variazione del Pil reale è la somma della variazione dell’occupazione e della variazione della produttività, due sono le spiegazioni possibili, entrambe negative: un drastico calo della produttività oppure una riduzione, involontaria, del numero di ore lavorate per lavoratore, o un mix di entrambi. Per l’economia italiana, per lavoratrici e lavoratori è, quindi, una pessima notizia e il Governo dovrebbe preoccuparsi, molto, non brindare”.

Per quanto riguarda le retribuzioni, nella media del 2023 l’indice delle retribuzioni orarie è cresciuto del 3,1% rispetto all’anno precedente. Ancora distante di tre punti percentuali dall’inflazione. Si può dire che l’occupazione cresce sì, ma con salari da fame?
“Appunto. Torniamo alla qualità dell’occupazione. Il lavoro continua ad impoverirsi. Trovo irritanti i passaggi delle conferenze stampa della Presidente della Bce Christine Lagarde quando sottolinea le buone condizioni del mercato del lavoro dell’euro-zona, come se non sapesse quanto sono fuorvianti quei dati indifferenziati, soprattutto in un biennio durante il quale l’inflazione ha tagliato le retribuzioni reali. Il dramma politico è che lavoratrici e lavoratori dipendenti o il pulviscolo di micro imprese market takers, come nell’agricoltura, ossia senza il potere di fare i prezzi sul mercato dei loro prodotti, sono sotto ricatto: se provano a recuperare anche in parte il potere d’acquisto perso, arriva ulteriore aumento dei tassi di interesse o allontanamento della loro riduzione. È davvero segno dei tempi che, sulla politica monetaria, i leader sindacali tacciano e si pronuncino solo banchieri, grandi azionisti e manager”.

I contratti in attesa di rinnovo a fine dicembre 2023 sono 29 e coinvolgono circa 6,5 milioni di dipendenti, il 52,4% dei dipendenti. Non sono un po’ tanti?
“Sono un dato inaccettabile, anche perché, a differenza di quanto avveniva fino al 2020, quando per un lungo periodo l’inflazione era sostanzialmente a zero, le retribuzioni reali non sono rimaste e non rimangono ferme, ma arretrano. Il ritardo dei rinnovi contrattuali è diventato una politica aziendale per ridurre il costo del lavoro”.

Cresce la richiesta di manodopera qualificata ma i corsi di formazione soprattutto per gli ex percettori del Reddito di cittadinanza sono al palo.
“Nessuna sorpresa. L’obiettivo del Governo era eliminare il RdC in quanto ‘salario di riserva’ ossia strumento che consentiva a lavoratori e lavoratrici di essere meno ricattabili e poter rifiutare salari a 3-4 euro l’ora. Il Governo dei ‘pronti’ non aveva pronto alcun programma per la formazione professionale. Ora, per erogare e poi non far perdere l’Assegno di Inclusione, dato che è condizionato alla formazione, si inventeranno o improvviseranno corsi di formazione frantumati su 12 mesi. Completamente inutili. Si conferma che la carenza di lavoratori qualificati non era conseguenza di importi troppo elevati del RdC. Dipende da retribuzioni basse, carenze dei percorsi di studi professionalizzanti, mutamenti strutturali nel rapporto tra vita e lavoro”.

Le domande per l’Assegno di inclusione sono state ai primi di gennaio pari a 450 mila circa, di cui solo 287mila e rotte sono state accettate. Solo un anno fa percepivano il Reddito di cittadinanza circa 1,2 milioni di nuclei familiari. Platea dimezzata?
“Il taglio drastico della platea di quanti beneficiavano del RdC è conseguenza dei criteri introdotti, a cominciare dall’abbassamento della soglia Isee. Si riduce la spesa sociale, ma si lasciano intonsi le decine di miliardi di super-profitti della finanza e delle imprese di energia”.

Cala il fatturato dell’industria a novembre dell’1%, addirittura su base annua del 3,4%. Manca una politica industriale?
“Purtroppo, manca da tanto tempo una politica industriale all’Italia. Dall’acciaio all’automotive si gestiscono soltanto i tavoli di crisi con gli ammortizzatori sociali”.

Il ministro Giancarlo Giorgetti col suo piano di privatizzazioni è degno erede di Mario Draghi del Britannia?
“Qui siamo ad una situazione surreale. Venti miliardi di euro sono irrilevanti ai fini della sostenibilità del debito pubblico, rappresentano lo 0.7% del suo totale. Inoltre, per arrivare all’obiettivo devi vendere quote di gioielli” come Eni o Poste, in un atto autolesionistico anche sul piano strettamente finanziario: i dividendi generati dalle quote da vendere superano gli interessi pagati sulla corrispondente riduzione di debito pubblico. Nel Regno Unito sono tornati e stanno tornando indietro a causa dei disastri nella privatizzazione dei monopoli pubblici nei servizi a rete”.