Fratelli d’Italia e di ‘ndrangheta. Venti anni all’ex uomo della Meloni. Così le ‘ndrine gestivano gli affari in Emilia Romagna. Inflitte 42 condanne per 217 anni di reclusione

Quarantadue condanne, le più alte a 20 anni per l’ex presidente del Consiglio comunale di Piacenza Giuseppe Caruso (nella foto) e per Salvatore Grande Aracri, figlio del boss Francesco e nipote di Nicolino. Non siamo in Calabria, bensì in Emilia Romagna, terra ormai da anni di conquista della ‘ndrangheta. A rivelarlo, ancora una volta, la sentenza pronunciata ieri nell’aula bunker del carcere della Dozza a Bologna, dal gup Sandro Pecorella, concludendo in primo grado il processo in abbreviato sull’inchiesta di ‘ndrangheta “Grimilde”, con al centro le infiltrazioni a Brescello (Reggio Emilia), unico Comune emiliano-romagnolo sciolto per mafia. Per Caruso, ex FdI ed ex funzionario delle dogane, ruolo col quale avrebbe aiutato la cosca, è stata disposta una provvisionale da un milione per il Comune di Piacenza.

CONDANNE PESANTI. Ed è proprio Caruso ad essere al centro del sistema criminale, secondo l’accusa e ora la sentenza. Assieme a Grande Aracri rappresenta il paradigma perfetto dell’abbraccio nefasto tra gli uomini della ‘ndrangheta calabrese, decisi a non mollare il boccone prelibato delle attività economiche nel nord Italia, e le brame di ricchezza della politica locale. Condanna pesante anche per il fratello del politico, Albino Caruso, di un anno più vecchio di Giuseppe, che ha incassato una severa condanna a 12 anni e 10 mesi di reclusione. Mentre il padre di Salvatore, Francesco Grande Aracri, dovrà vedersela con la Corte nel rito ordinario che inizierà a Reggio Emilia a dicembre. Via via tutte le altre condanna, tra membri delle cosche calabresi e professionisti conniventi emiliani e non.

CRIMINALI E POLITICI. Il cuore di Grimilde è una “attrazione fatale” che porta imprese del Nord ad affidarsi alle ricette della ‘ndrangheta per uscire da situazioni difficili. C’è ad esempio una enorme fornitura di riso, per oltre sei milioni di euro, che la Riso Roncaia spa di Castelbelforte, in provincia di Mantova, deve consegnare alla Agea, l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura, sulla base di un bando della Comunità Europea. L’impresa mantovana, però, non è in grado di arrivare in tempo con la consegna di una tranche del 25% entro il mese di luglio 2015, rischiando così di perdere un accredito di oltre 2 milioni di euro. A risolvere il problema ci pensano Giuseppe Caruso e Salvatore Grande Aracri, che avevano già aiutato la società, in difficoltà finanziaria e gravata di debiti, ad ottenere linee di credito. Caruso, intercettato, si vanta addirittura di avere scomodato l’amministratore delegato di Unicredit Francesco Ghizzoni per risolvere il problema dei debiti della Roncaia. Ghizzoni, però, ha sempre smentito ogni coinvolgimento.

INTIMIDAZIONI E MINACCE. Non poteva mancare, poi, il consueto corredo di minacce e intimidazioni, falsi e truffe, estorsioni e recupero crediti, furti e sfruttamento dei lavoratori. Carpentieri e muratori in particolare, reclutati dal vecchio boss Francesco Grande Aracri, che insegnava al figlio Salvatore come si ottiene il meglio dal caporalato e andava personalmente a Bruxelles per gestire le attività che varcavano i confini. Si avvalevano anche di una consulente del lavoro i mafiosi, per le loro intestazioni fittizie: Monica Pasini, originaria di San Secondo in provincia di Parma, condannata a due anni. Un quadro impressionante che, dopo l’inchiesta Aemilia, dimostra ancora una volta come la ‘ndrangheta abbia grossi interessi anche in Romagna.