C’è un punto preciso in cui una coalizione smette di essere una maggioranza e torna a essere una somma di partiti in competizione. Questa settimana il centrodestra ci è arrivato con la rapidità di una frana. La coreografia dell’unità ha retto per mesi, sorretta dal mantra della “stabilità”, ma la politica tende a rendere visibile ciò che i comunicati non riescono più a contenere. In sette giorni il governo Meloni ha mostrato fratture strategiche, divergenze sul piano internazionale, guerre di posizione nella manovra e un logoramento interno che si fa più evidente dell’immagine che tenta di proiettare.
Il fronte ucraino e la metamorfosi di Salvini
La crisi più appariscente si è consumata sulla proroga degli aiuti militari a Kiev. Il decreto, dato per certo, è stato ritirato dall’ordine del giorno per evitare un incidente politico con la Lega. Salvini ha affidato la sua distanza a dichiarazioni studiate: gli «scandali» a Kiev, il rischio di «alimentare la guerra», il desiderio di riaprire «ponti» con Mosca. È una linea che non nasce ora. È la trasformazione di Salvini in contropotere permanente, il leader che non offre sponde ma mette alla prova la tenuta del governo.
Dal Bahrein, Meloni ha assicurato che l’Italia manterrà i suoi impegni. Tajani ha tentato di ricomporre il fronte atlantico ribadendo che la politica estera «spetta al premier», mentre Crosetto ha ricordato la coerenza con Nato e Unione Europea. Poi l’intervista dell’ammiraglio Cavo Dragone al Financial Times, con l’ipotesi di risposte militari più incisive, ha aggiunto un nuovo strato di imbarazzo: un governo già attraversato da tensioni interne si è ritrovato a gestire un messaggio non allineato proprio nel terreno più sensibile, quello della sicurezza.
La missione nel Golfo, pensata per consolidare la rete diplomatica del “Piano Mattei”, ha restituito una premier meno accolta di quanto prevedesse la narrazione ufficiale. Alcuni incontri ridimensionati, commenti riservati filtrati dalle cancellerie e l’impressione che il posizionamento italiano sia osservato con crescente cautela: tutto ciò mentre la Lega rilanciava l’ipotesi di voli diretti Roma-Mosca. La distanza tra la linea del governo e quella di un suo vicepremier è diventata materiale politico.
La manovra come teatro di veti, ripensamenti e battaglie di identità
Sul fronte economico l’ultimo periodo ha prodotto un altro repertorio di discordie. Il taglio del canone Rai proposto dalla Lega è stato respinto con fermezza da Forza Italia, più interessata a preservare l’equilibrio del mercato televisivo che a concedere una bandierina identitaria a Salvini. Sulla tassazione degli affitti brevi, Lega e FI hanno unito le forze per frenare il progetto del Mef: la cedolare al 26% si è trasformata in un compromesso svuotato, con effetti minimi sul gettito.
L’emendamento di Fratelli d’Italia sull’oro di Bankitalia, pensato per sancire la “proprietà” statale delle riserve, ha provocato la reazione della Banca Centrale Europea e una rapida retromarcia della maggioranza. La marcia indietro sulla cannabis light — prima difesa, poi ritirata — ha chiuso il cerchio di una settimana in cui la filiera decisionale del governo è sembrata disallineata, affaticata, incapace di assumersi la responsabilità di un indirizzo univoco.
In Commissione Bilancio decine di emendamenti della stessa maggioranza sono stati dichiarati inammissibili per mancanza di coperture. Il risultato è una manovra che verrà approvata con fiducia per tappare un conflitto interno che non ha trovato soluzione politica. E lo sciopero nazionale del comparto Giustizia ha aggiunto un altro elemento di sfasatura tra governo e Paese.
L’immagine della stabilità e la realtà delle forze in rotta di collisione
Meloni continua a descrivere queste tensioni come normali discussioni. È una strategia comunicativa che mira a contenere gli effetti della competizione interna, ma le fratture non sono episodiche: sono radicate nella diversa idea di collocazione internazionale, nella diversa platea elettorale, nel diverso orizzonte strategico dei tre partiti di governo.
Tajani cerca di rappresentare l’asse europeista e rassicurare i partner; Crosetto tutela la credibilità militare del Paese; Salvini, invece, ha scelto l’attrito come forma di leadership. Ogni volta che la coalizione tenta di presentarsi coesa, il vicepremier rilancia un tema divisivo, un sospetto, un distinguo. Non è un incidente: è un metodo. È la sua via per rientrare nel campo della centralità politica.
La maggioranza rimane in piedi perché nessuno ha interesse a farla cadere. La convenienza tattica prevale sul progetto comune. Ma la settimana appena trascorsa ha mostrato un dato strutturale: la stabilità proclamata non coincide con la stabilità esercitata. Ogni dossier aperto — Ucraina, manovra, rapporti con Bruxelles, politica energetica, sicurezza — produce una nuova linea di frattura. Ogni vertice serve a coprire il rumore di una coalizione che procede per forza d’inerzia.
Il governo Meloni continua a dire di essere unito. Lo ripete con disciplina. Lo afferma con sicurezza. È quando una maggioranza deve ribadire la propria compattezza ogni giorno che si capisce quanto questa compattezza sia fragile. E questa settimana ha segnato il momento in cui la fragilità è diventata racconto pubblico.