Gambaro epurata dai colleghi pentastellati per aver espresso un’opinione

di Vittorio Pezzuto

Accusano i giornalisti di non raccontare il loro prezioso lavoro nel Palazzo ma poi trascorrono la giornata a dibattere (beninteso senza diretta streaming) sull’ombelico del Movimento, discettando di disciplina di gruppo e rinfacciando al vicino di scranno un’insufficiente adesione al progetto rivoluzionario. Comunque la si pensi, lo spettacolo che da giorni i parlamentari grillini stanno offrendo al Paese mette davvero tristezza. Perché la messa sotto accusa di una senatrice per aver sobriamente criticato il sommo leader e la decisione di affidarla al Valhalla della Rete non è certo un rito barbarico ma, più modestamente, l’abdicazione ai principi minimi che dovrebbero regolare la convivenza in uno stesso partito. E qualunque sia l’esito finale di questa vicenda dai tratti surreali, tutti hanno ormai percepito l’infrangersi del sogno e compreso come ancora più difficile si annunci la prospettiva di un pronto riscatto elettorale. Pochi giorni di solleone sulla capitale sono bastati infatti a squagliare la compattezza del movimento, offrendo alla malcelata gioia degli avversari politici la vista di un disastro tattico e di immagine senza precedenti. Questa disordinata armata Brancaleone dell’antipolitica appare ormai irrimediabilmente indecisa a tutto. D’altronde era solo questione di tempo. Lo tsunami grillino ha coagulato personaggi troppo disomogenei, spesso sull’onda di battaglie locali che stentano adesso a trovare cittadinanza nella politica nazionale. Hanno storie e professioni troppo differenti, si sforzano di parlare la stessa lingua ma scontano una fatale diversità di toni e culture. Non si conoscevano tra loro, Grillo non li conosceva e ben pochi di loro avevano incontrato l’ex comico genovese. Lasciati soli nel Palazzo, si sono presto smarriti.

Nelle ore fatidiche precedenti il processo ad Adele Gambaro hanno reagito pertanto ciascuno con la propria sensibilità, non di rado offrendo nei take di agenzia squarci improvvisi di autocoscienza. «Questi sono stati i giorni più brutti della mia vita» ha confessato il neocapogruppo al Senato Nicola Morra, cultore nostalgico dell’autocritica di comunistica memoria. Parlando di sé in terza persona, ha rassicurato colleghi e ayatollah del web: «Io per primo chiederò che Nicola Morra, alla prossima assemblea utile, venga giudicato dalla Rete. Se ho sbagliato, è giusto sia così». E mentre il suo predecessore Vito Crimi si è defilato con l’ennesima gaffe («Devo andare via, devo fare il trasloco…»), molti altri hanno avvertito l’urgenza di lasciare un segno, un grido, una testimonianza nello psicodramma che li sta consumando. «Facciamo una telefonata a Beppe per fargli le scuse in diretta e ci ricompattiamo» suggeriva Rosetta Blundo; «Dovrebbe essere chiaro a tutti che a stampa e tv non frega nulla di quel che fanno i 5Stelle: solo sputtanarli» ammoniva Angelo Tofalo; «Ora c’è da tirare fuori le unghie: chi non se la sente, se ne vada a casa» sbottava Laura Bottici; «Noi non siamo in guerra, deve cambiare la mentalità del Paese, ma nella maniera più soft possibile. Quante persone servono per un’eventuale gogna mediatica? Dare un’opinione personale è illegale? Offende l’immagine del Movimento?» provava a ragionare Alessandra Bencini; «So da dove sono venuto e so dove voglio arrivare. Devono andarsene tutti a casa!!! Non so invece quale percorso ha fatto la Sig.ra Gambaro per arrivare in Senato» reagiva invece a muso duro Maurizio Santangelo. E se Gianni Pietro Girotto esortava tutti a «ricomporre la frattura per il bene del movimento», per Francesco Campanella la priorità era quella di «restare uniti e passare oltre».

Aspirazione, quest’ultima, davvero troppo ambiziosa. Il caso Gambaro è stato il detonatore di uno scontro interno che non potrà facilmente essere ricomposto con due twittate e qualche post internettiano di circostanza. Se le parole sono pietre, in molti hanno ceduto al fascino della lapidazione in piazza. Un episodio per tutti. In mattinata la deputata Paola Pinna si era permessa di dichiarare a La Stampa che «se la scelta fosse tra Grillo e la Gambaro per me sarebbe una scelta tra schiavitù e libertà. Io scelgo la libertà». Apriti Facebook! Sulla sua pagina, il collega Manlio Di Stefano le ha scagliato contro una vera e propria fatwa: «Risparmiatemi questa “Cosetta dei Miserabili” (laureata disoccupata che viveva con i genitori a Quartucciu, Cagliari, e con cento voti cento è diventata deputata al Parlamento) che invece di spargere petali di rosa dove Grillo cammina, sorge in difesa di una certa Gambaro, un’altra miracolata che si crede Che Guevara. No, bambina, tu scegli di far parte di quella casta di paraculi che il tuo Paese, votandoti, ti aveva supplicato di togliergli dai piedi. Spero vivamente che il Movimento perda tutti gli elementi nocivi, tutti quegli elementi tossici che possono ‘infettare’, anche solo involontariamente, tutti gli altri. È un po’ la legge di Darwin: sopravvivono i più forti, i non deboli». Adele Gambaro, che prima di abbandonare l’aula del processo si è rifiutata di chiedere scusa per le sue parole, vuole comunque poter restare nel gruppo. Crimi e l’ala dura degli ortodossi hanno però chiesto la sua espulsione, che sarà il web a ratificare. È stato così accontentato Grillo, che voleva un referendum sulla sua leadership. Ha però poco da gioire. Dopo aver mandato decine di sconosciuti in Parlamento grazie alla forza catartica del suo “vaffanculo”, non dev’essere consolante scoprire che i suoi trascorrono gran parte del tempo scagliandosi a vicenda il medesimo epiteto.