Giornalisti nel mirino, non solo Ranucci: per Piantedosi le minacce corrono di più sul web. Ma per i cronisti sono soprattutto le querele temerarie e le aggressioni fisiche

Informativa di Piantedosi al Parlamento: non solo web, le minacce ai giornalisti sono bombe (l'attentato a Ranucci), querele e potere

Giornalisti nel mirino, non solo Ranucci: per Piantedosi le minacce corrono di più sul web. Ma per i cronisti sono soprattutto le querele temerarie e le aggressioni fisiche

Nel giorno in cui la stampa italiana fa ancora i conti con l’attentato a Sigfrido Ranucci, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi informa il Parlamento che «le minacce più ricorrenti contro i giornalisti provengono dal web». Una dichiarazione che sposta il baricentro del problema su un piano generico – l’odio online – ignorando ciò che i numeri raccontano: la libertà di stampa in Italia è vittima non soltanto degli hater digitali, ma anche di aggressioni fisiche, pressioni istituzionali e un uso intimidatorio della giustizia.

Le cifre che il Viminale non legge

Secondo i dati diffusi dallo stesso Ministero dell’Interno, nel 2024 gli atti intimidatori segnalati alle forze di polizia sono stati 114, in aumento rispetto ai 98 del 2023. Di questi, 37 sono avvenuti via web, mentre 30 sono aggressioni fisiche, 17 minacce verbali e 15 atti di danneggiamento. Il web non sostituisce la violenza reale: la accompagna. E il caso Ranucci – due esplosioni e proiettili sotto casa – è lì a ricordare che i giornalisti italiani non temono soltanto i commenti anonimi, ma anche le bombe.

Il monitoraggio dell’osservatorio Ossigeno per l’Informazione allarga ulteriormente il quadro: 516 episodi di intimidazione nel 2024, oltre 7.500 dal 2006. E soprattutto un dato che rovescia la narrazione ministeriale: più della metà delle azioni legali abusive (Slapp) contro i cronisti proviene da soggetti istituzionali. Le intimidazioni non arrivano solo dai sottoscala dell’odio digitale, ma anche dai piani alti del potere. C’è poi un elemento sistemico che non entra nelle statistiche penali: la precarietà strutturale. Compensi bassi, cause civili costose, redazioni sotto organico rendono i cronisti più esposti e più facili da colpire. È il contesto materiale che trasforma un atto intimidatorio in bavaglio efficace.

Il vero fronte: aule di tribunale e poteri forti

Nel World Press Freedom Index 2025 l’Italia scivola al 49° posto. Le cause? Per Reporters Sans Frontières: la permanenza della diffamazione penale, l’assenza di una legge efficace contro le querele temerarie, la pressione politica sul servizio pubblico. È qui che si misura la responsabilità di un governo. Non nel denunciare genericamente i toni dei social, ma nel recepire la direttiva europea anti-Slapp, nel garantire protezione economica e legale a chi viene trascinato a processo per aver raccontato fatti scomodi, nel considerare il giornalismo un presidio democratico anziché un disturbo dell’ordine politico.

Finora, però, la direzione è opposta. La riforma della diffamazione è ferma. La direttiva europea anti-querele resta fuori dalle priorità legislative. La Rai è terreno di continui scontri e denunce di ingerenze. La retorica governativa parla di giornalisti «ideologizzati», «militanti», da “riportare all’equilibrio”. In questo clima, la condanna dell’odio online rischia di suonare come un diversivo. Se davvero si volesse proteggere chi informa, si metterebbero a bilancio fondi di assistenza legale per le cause-bavaglio, si rafforzerebbero i protocolli tra Prefetture, Ordini e sindacati per le segnalazioni rapide, si introdurrebbero sanzioni dissuasive per chi usa il processo come arma. E si difenderebbero per primi i cronisti locali, quelli che raccontano mafie, appalti e poteri vicini a casa: i più vulnerabili, i meno difesi.

La protezione dei cronisti non si misura nel numero di reati informatici censiti, ma nella disponibilità della politica a difenderne l’autonomia, a sottrarli alla tortura economica delle querele-bavaglio, a prendere posizione senza ambiguità contro chi li aggredisce per impedirgli di lavorare. Il resto è rumore di fondo.

Se il governo vuole davvero difendere la stampa, il banco di prova non sarà un algoritmo che filtra insulti: sarà il coraggio di disinnescare le armi più efficaci per spegnere le voci libere. Quelle che non viaggiano solo nei social, ma esplodono negli androni delle case e si trascinano per anni nelle aule di tribunale. E finché la politica fingerà che il problema stia nello schermo, chi racconta i poteri continuerà a pagare il prezzo fuori campo: nel buio delle scale, negli avvisi di garanzia usati come minaccia, nei conti salati delle spese legali.