Giulia Cecchettin, due anni dopo: cosa (non) è cambiato davvero contro la violenza di genere

A due anni dall’omicidio di Giulia Cecchettin, leggi e azioni non bastano: la prevenzione nelle scuole e le reti di sostegno restano fragili

Giulia Cecchettin, due anni dopo: cosa (non) è cambiato davvero contro la violenza di genere

Due anni fa, l’11 novembre 2023, Giulia Cecchettin veniva uccisa dall’ex fidanzato. A due anni di distanza, suo padre Gino torna in Parlamento e ripete le stesse parole: «La giustizia arriva dopo. La prevenzione è prima». Lo dice senza solennità, con la gravità di chi ha riconosciuto che nessuna condanna alleggerisce il peso. «La violenza non è un raptus. Cresce in una società che minimizza, silenzia, giustifica». È un punto preciso: la radice non è nell’atto estremo, ma nel terreno che lo rende possibile. Durante l’audizione in Commissione Femminicidio di oggi, 11 novembre 2025, Cecchettin ha ribadito che «l’educazione affettiva non è un pericolo, è una protezione» e che «non sono qui per chiedere pene più dure, ma educazione a scuola», ricevendo l’applauso dei commissari.

La retorica delle leggi e la realtà dei fatti

In questi due anni, la politica ha privilegiato la risposta penale. Braccialetti elettronici, misure precauzionali rafforzate, proposte di reato autonomo di femminicidio: una produzione normativa che interviene quando la violenza è già esplosa. Nel 2024 sono state uccise 111 donne, 96 in ambito familiare o relazionale; nei primi mesi del 2025 l’incidenza dei femminicidi da partner è rimasta sostanzialmente stabile. La violenza non ha atteso le nuove leggi.

Nel frattempo, la rete dei centri antiviolenza continua a muoversi con risorse insufficienti. L’Italia ha in media 0,15 case rifugio ogni 10.000 donne, sotto lo standard indicato dalle linee guida internazionali. I fondi arrivano a tratti, spesso tramite riparti regionali lenti. Gli sportelli di ascolto e i percorsi di autonomia economica – quelli che permettono concretamente a una donna di uscire da una violenza e non tornarci – restano fragili. È proprio su questo piano, quello quotidiano e preventivo, che secondo le operatrici “poco o nulla è cambiato”. Oggi anche dal Parlamento è arrivato un richiamo politico: «poco o nulla è cambiato», ha detto la vicepresidente Pd Chiara Gribaudo, chiedendo più risorse per CAV e welfare di conciliazione.

Anche il dibattito pubblico ha mostrato una fragilità rivelatrice. Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha sostenuto che «il patriarcato non esiste», e diversi membri della maggioranza hanno attribuito la violenza alle migrazioni irregolari. È stata una scelta di linguaggio politica: spostare lo sguardo altrove, evitare di nominare la cultura che sostiene la gerarchia del possesso affettivo.

La scuola che arretra

La questione decisiva resta la formazione. Ed è qui che si è aperta la frattura più evidente. Il disegno di legge promosso da Valditara non introduce l’educazione affettiva come percorso strutturale e obbligatorio: la limita. Alle scuole medie la presenza di esperti esterni viene vietata; alle superiori è richiesta l’autorizzazione scritta delle famiglie. È un modello di opt-in: l’educazione diventa eccezione, non norma. Proprio oggi, Cecchettin ha messo in fila i verbi che mancano: «conoscere se stessi, gestire le emozioni, riconoscere i confini, chiedere e dare consenso». Parole semplici, che nella pratica distinguono l’affetto dal controllo, il desiderio dal dominio. «Quando la scuola tace parlano i social, i modelli tossici, i silenzi degli adulti», ha avvertito. E il rischio è matematico: dove il curricolo non entra, si allarga la pedagogia parallela delle piattaforme.

Gino Cecchettin lo ha detto chiaramente: «Una scuola che non parla di affettività è una scuola che lascia soli i ragazzi». E i dati sull’adolescenza confermano questa solitudine: uno studente su tre considera “normale” controllare il telefono del partner; tra i 14 e i 16 anni resistono stereotipi che legano amore e controllo. Se la scuola non interviene, lo fanno gli algoritmi, la peer culture, la ritualità del possesso.

Oggi, davanti ai deputati, Cecchettin ha chiesto di investire sull’educazione come forma di giustizia anticipata. La sua fondazione non custodisce la memoria del dolore: la trasforma in responsabilità collettiva. «Non possiamo cambiare ciò che è stato, ma ciò che sarà». La frase è chiara. La domanda ora non riguarda più la consapevolezza, ma la volontà. Chi governa ha capito. La scelta è se agire o continuare a commemorare.