Giustizia, Processo inCivile: sentenze in ritardo di sei anni

di Stefano Sansonetti

Di certo non avrà gioito. Per carità, Anna Maria Cancellieri si è insediata soltanto da poco tempo al vertice del ministero della giustizia. Ma l’ultimo “bollettino” dell’Ocse sulla durata del processo civile in Italia non può non indurre preoccupazione anche nel nuovo inquilino di via Arenula. Il fatto è che nel Belpaese la conclusione di un procedimento, completo di tre gradi di giudizio, si porta via qualcosa come 8 anni di tempo. Un’enormità, tanto più se comparata con la media di 788 giorni dei 34 paesi che fanno parte dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Troppo facile, e amaro, farne conseguire che per l’ennesima volta l’Italia si colloca all’ultimo posto nella graduatoria. Il paese più virtuoso, da questo punto di vista, è la Svizzera, dove per arrivare alla conclusione del procedimento bastano 368 giorni. Rispetto a questo parametro in Italia le sentenze dopo il terzo grado di giudizio arrivano con circa sei anni di ritardo. Secondo l’Ocse, che ha condensato i numeri in un rapporto sull’efficacia della giustizia, le ragioni dell’incredibile situazione nostrana dipendono fondamentalmente da un’informatizzazione ancora lontana da risultati accettabili. “Molti paesi non hanno ancora offerto servizi on line”, scrive l’organizzazione riferendosi anche all’Italia, “come la possibilità per gli avvocati di seguire i casi via web”. E ancora: “Investimenti nell’informatizzazione dei tribunali sono correlati a una più alta produttività dei giudici”. Tronando al rapporto, l’Italia risulta all’ultimo posto per durata del processo civile anche se si considerano i dati relativi al primo grado di giudizio. In questo caso infatti, a fronte di una media Ocse di 240 giorni, da noi ne servono ben 564. E vien quasi voglia di non conoscere la cifra del paese più virtuoso, il Giappone, che con i suoi 107 giorni fa sembrare le nostre prospettive di recupero semplicemente utopistiche.

Le reazioni
Per il presidente del senato, Pietro Grasso “Non è accettabile che i processi siano concepiti come un girone dantesco”. Il numero uno di palazzo Madama ha riconosciuto che l’Italia è il paese del “ma sì, fammi causa”. Espressione praticamente ricattatoria, vista l’incredibile durata dei procedimenti. Ma l’amaro slogan, secondo Grasso, “non può essere concepito come uno scudo per negare i diritti”. Per non dire del fatto che “con un numero di magistrati inferiore alla media europea l’Italia si trova ad avere quasi il doppio delle pendenze rispetto alla media”. Ma per uscire dal pantano ci vuole altro.

Le risorse
Altro elemento del rapporto che fa riflettere è quello delle risorse destinate al sistema giustizia. Ritornando ai paesi più virtuosi, il paragone si fa tanto più impietoso se si considerano gli investimenti pubblici. Italia e Svizzera, tanto per dirne una, destinano al sistema giudiziario la stessa quota di prodotto interno lordo, ovvero lo 0,2%. Ed è questa la prova, se per caso ce ne fosse ancora bisogno, di come il problema stia tutto nel modo in cui si spendono le risorse. Questione che riporta direttamente alla ricetta auspicata dall’Ocse, quella fatta a base di informatizzazione. Su questo punto il governo guidato da Enrico Letta, ne giorni scorsi, ha cercato di battere un colpo nominando il manager Francesco Caio “mister Agenda Digitale”, ovvero responsabile di tutto quel programma di interventi che dovrebbero aiutare gli uffici pubblici a entrare definitivamente in collegamento tra di loro, riuscendo finalmente a dialogare. Sperando che sia la volta buona.

@ssansonetti