Gli assalti (falliti) al monopolio del Supremo

di Angelo Perfetti

Da qualunque parte si voglia guardare l’inchiesta su Malagrotta, la questione centrale è: come si è gestita l’emergenza? L’assunto di base della maggior parte dei politici coinvolti, sfiorati dall’inchiesta o solo “informati sui fatti” è che l’emergenza era tale da poter andare solo nella direzione indicata dal Supremo. Che poi Cerroni l’avesse costruita ad arte non è cosa che la politica poteva sapere. E’ indubbiamente una linea di difesa, anche se risulta poco credibile che i due dirigenti implicati, Fegatelli e De Filippis, potessero decidere autonomamente senza dover rendere conto passo dopo passo a chi gestiva politicamente l’Ente di riferimento. Di contro va sottolineato come il peso specifico dei burocrati, oggi come oggi, sia spesso molto più alto degli stessi politici.
C’è però un altro modo di smarcarsi dal sospetto di avere fatto affari con il re delle discariche, ed è quello di dimostrare carte alla mano quanto – emergenza o no – si sia fatto per demolire l’impero monopolista sui rifiuti. E’ il caso dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, vittima – secondo la ricostruzione degli inquirenti – di vere e proprie minacce da parte di Cerroni e del suo staff, non tanto in forma diretta quanto agitando lo spettro di una repentina chiusura di Malagrotta con inevitabile ripercussioni nefaste sulla raccolta dei rifiuti nella capitale. Quanto poteva bastare per far diventare Roma un caso internazionale così deflagrante da indurre alle dimissioni anche il sindaco più ostinato.

Fatti non parole
E allora ecco venir fuori gli atti. Come il protocollo di intesa tra La Russa e Alemanno che indicava l’area militare dismessa tra Civitavecchia e Allumiere come futura discarica di Roma; a supporto di tale progetto, la allora presidente Polverini costituì un’unica Ato per tutta la Regione. Peccato però che quel progetto non vide mai la luce, perché – è la tesi – bloccato dall’ostilità della Provincia di Roma e della regione Lazio. Poi ci fu la storia del cosiddetto “contratto dei dieci anni”. Gianni Alemanno convocò d’urgenza i vertici dell’Ama dopo avere saputo – “dai giornali”, disse – che la municipalizzata dei rifiuti stava per impegnarsi a pagare 500 milioni di euro per dieci anni al consorzio Colari. L’Ama sarebbe stata vincolata al pagamento di cinquanta milioni di euro l’anno, per dieci anni, a Colari per il trattamento meccanico-biologico (tmb) dei rifiuti da conferire in discarica. Il Campidoglio volle vederci chiaro, E stoppò la cosa chiedendo chiarimenti. Poco dopo arrivarono le dimissioni (peraltro pagate profumatamente) dell’amministratore delegato di Ama, Salvatore Cappello. Infine l’ex sindaco di Roma si mise contro Cerroni anche quando firmò l’ordinanza per la verifica delle falde acquifere della Valle Galeria (in discussione c’era anche l’individuazione di Monti dell’Ortaccio come sito per lo stoccaggio rifiuti), ordinanza poi sospesa dal Tar. Insomma, come si dice: tre indizi fanno una prova. E i tre indizi a disposizione della storia cittadina dicono che l’ex sindaco ha tentato – carte alla mano – di fermare lo strapotere del boss dei rifiuti.

Di Paolo si difende
Ma Alemanno non è l’unico politico che rivendica indipendenza – al limite della contrarietà – rispetto allo strapotere di Cerroni. A prendere le distanze dal Supremo anche un ex alemanniano di ferro (ora non più così vicini, anzi) Pietro Di Paolo, già assessore regionale proprio ai rifiuti. Il suo caposegreteria in Regione, Romano Giovannetti, è finito nel tritacarne dell’inchiesta, ma Di Paolo chiarisce. Secondo l’ex assessore alle Attività produttive e alle politiche dei rifiuti della Regione Lazio all’epoca della giunta guidata da Renata Polverini, diversi atti dimostrano il tentativo di impedire un rafforzamento della posizione Colari e del patron di Malagrotta Manlio Cerroni: dalla scelta del sito di Corcolle per la discarica provvisoria di Roma, “né direttamente né indirettamente riferibile a Colari”, all’acquisizione del consorzio Gaia, attraverso cui il sito di Colleferro divenne proprietà della Regione facendo in modo che “quell’impianto restasse pubblico”.
“Io non sono indagato nell’inchiesta”, precisa Di Paolo, che rispetto ai suoi rapporti con Cerroni sottolinea: “Erano molto dialettici: da una parte c’era la necessità istituzionale di parlare con il principale Gruppo che gestisce il ciclo dei rifiuti a Roma e nella gran parte del Lazio, dall’altra l’indisponibilità, dimostrata e dichiarata, a far si’ che quella posizione di monopolio continuasse a essere perpetrata. Il filo rosso che ha guidato la nostra attività nell’assessorato è stato quello di creare i presupposti per rompere il monopolio che, per una serie di motivazioni legate a epoche precedenti, si era creato – continua – Ci sono dei passaggi fondamentali che dimostrano che non c’è stata nessuna mia sudditanza nei confronti di Cerroni. Ricordo solo che la prima ordinanza sulla prescrizione del trattamento dei rifiuti da parte della Polverini fu propedeutica alla chiusura della discarica di Malagrotta”.