di Lapo Mazzei Alla fine lo ha fatto. Ha ritirato le dimissioni presentate nei giorni scorsi. A nulla sono serviti i vertici più o meno segreti con i vertici del Pd cosi come non sembrano preoccuparlo affatto le dimissioni di massa. Ignazio Marino, sin dal primo minuto di questa incredibile storia, ha sempre avuto un solo obiettivo: confrontarsi con il presidente del Consiglio e segretario del partito, Matteo Renzi. Ma non un confronto a distanza, attraverso le pagine dei giornali, bensì un incontro fisico di persona. In modo da poter guardare direttamente negli occhi colui che prima lo ha sostenuto e poi lo ha mollato. Senza riserve ne remore. Ecco, probabilmente sta proprio in questa ricerca del contatto fisico, del confronto personale, la chiave del caso Marino che con le sue peripezie è diventato il simbolo di quell’antirenzismo che vede nei modi di fare del premier, tutto Twitter e selfie, promesse e spot elettorali, una sorta equilibrista della democrazia, insofferente alle regole, amante del potere e indisponibile a mettere la faccia nelle cose che possono macchiargli la camicia bianca. E Marino, arrivati a questo punto della storia, non è solo la variabile impazzita che manda in tilt il flipper (quale è diventato ormai il Partito democratico) ma è l’incarnazione della rivolta a Renzi. Anzi, è una sorta di fattura vivente per i troppi conti lasciati in sospeso dal premier. E i “buffi” come si dice a Roma, prima o poi vanno pure saldati. E per quanto potrà sembrare paradossale l’idea del sindaco Marino di regolare i conti in Consiglio comunale ha una sua logica. Se è una questione politica allora bisogna seguire le regole della politica. Marino dirà la sua e il Pd, a quel punto non potrà che assumersi la responsabilità di far cadere colui che ha eletto con i propri voti. A quel punto il Re non sarà nudo, ma totalmente disarmato. Perché se Renzi ha avuto vita facile nel colpire alle spalle, con un gioco di potere degno dei paesi sudamericani, l’ex premier Enrico Letta, con Marino dovrà uscire da dietro le quinte e presentarsi agli elettori. Non che ci sia del metodo nella follia del primo cittadino della Capitale, certamente c’è della doppiezza nel modo di fare del premier. Capace di grandi spot quando il bersaglio à facile, ma pronto a trasformarsi in un fantasma quando il campo si fa minato. Un premier, se davvero è tale, lo è sempre. E un partito che vuol diventare il movimento della Nazione non può essere preso dal panico se un Marino qualunque ne fa emergere le contraddizioni, le evidenti lacune tecniche e tattiche. Dopo ore e ore di vertice nella sede del Nazareno tra il commissario romano del Pd Matteo Orfini e i consiglieri capitolini dem, la linea emersa era quella delle dimissioni di massa nel caso in cui il sindaco ci avesse ripensato. Proprio mentre era in corso la riunione è arrivato dal Campidoglio l’annuncio delle dimissioni ritirate. Dall’elaborazione del lutto all’improvvisazione da panico il passo è strato breve. Ora, per evitare la Caporetto finale, il Pd dovrà trovare 25 consiglieri, fra maggioranza e opposizione, disposti a dimettersi in massa. Solo così i dem potranno evitare a Marino di parlare in Aula Giulio Cesare. Perché a quel punto anche Renzi dovrebbe starlo a sentire. E quella sì che sarebbe una enorme sconfitta….
Ora il sindaco è indagato
Se da una parte il sindaco di Roma, Ignazio Marino, forza la mano sfidando Matteo Renzi, dall’altra parte è costretto a fare i conti con le indagini. Perché secondo quanto riporta il quotidiano La Repubblica, sarebbe stato iscritto nel registro degli indagati della Procura di Roma per “peculato e concorso in falso in atto pubblico nell’inchiesta sui giustificativi delle note spese saldate con la carta di credito del Comune”. Notizia, che stando alle rivelazioni del quotidiano, sarebbe a conoscenza del sindaco già da mercoledì.