La testa della flotta è già in mare dopo la partenza del 1° settembre da Barcellona. La notte è stata dura: mare grosso, apparati in tilt, molte radio mute. Gli attivisti parlano di «tempesta elettromagnetica» che ha costretto alcune barche al rientro, mentre chi è rimasto in rotta ha navigato a vista con quattordici unità. In mattinata il segnale è tornato: i report di bordo dicono che la navigazione prosegue, con danni leggeri e equipaggi in grado di tenere la linea.
A terra si muove il resto del mosaico. Le unità che hanno fatto scalo a Genova hanno già lasciato il porto; il concentramento italiano e le partenze sono in Sicilia, in coordinamento con Tunisi. A metà mese l’obiettivo è tagliare la rotta verso Gaza.
Sul piano politico la pressione sale di grado. Tel Aviv continua a criminalizzare la missione e ora minaccia l’intera Europa che la sostiene: un avvertimento che fa coincidere la solidarietà civile con la guerra ibrida. Nelle capitali si discute di sicurezza marittima evitando la parola blocco, mentre il ministro degli Esteri Antonio Tajani, incalzato, ha detto l’ovvio: «terroristi a bordo? Non mi risulta».
Intanto Gaza resta una ferita aperta. Le cifre dei morti e della fame scivolano via dalle cronache; ogni miglio percorso rimette al centro chi sopravvive dietro il muro e chi prova a raggiungerlo dal mare. È il senso del “sumud”, la testardaggine del restare umani: una flotta di gommoni, pescherecci e persone comuni che trasformano il Mediterraneo in un registro pubblico. Se arriveranno, avremo una prova che la politica può ancora inseguire il diritto. Se verranno fermati, resterà, nitida, la traccia della mano che li ha fermati.