La Sveglia

Governo in retromarcia pure sulla Wagner

Tajani ha dovuto ammettere che la Wagner “non è certamente la prima causa” che spinge i migranti verso nord.

Governo in retromarcia pure sulla Wagner

La Wagner è sparita. Quello che doveva essere il braccio armato di Putin per rovesciare il governo Meloni facendo imbarcare africani verso l’Italia è un allarme che si è già sgonfiato. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani, mesto mesto, ha dovuto ammettere che la Wagner “non è certamente la prima causa”, “probabilmente una delle concause che spinge i migranti verso nord”. Hanno scherzato. Chissà come ci rimarrà male chi ha passato le ultime 24 ore a fingersi esperto di geopolitica convinto di avere trovato la causa di tutti i mali. Il nervosismo nei confronti del ministro Guido Crosetto, accusato di avere trascinato la maggioranza in un dibattito surreale è palpabile.

Tajani ha dovuto ammettere che la Wagner “non è certamente la prima causa” che spinge i migranti verso nord.


Ieri la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha tentato di caricarsi sulle spalle la questione migranti confidando sull’effetto della sua lunga luna di miele con gli italiani. Non è andata benissimo. Dopo il solito piagnisteo della “calunnia all’Italia intera” perché l’opposizione fa l’opposizione, ponendo domande a cui i ministri Piantedosi e Salvini continuano a non rispondere, Meloni ha spiegato di sentirsi “con la coscienza a posto” perché l’ultimo naufragio di cinque giorni fa “si è svolto in area Sar di responsabilità della Libia ed è stato inizialmente coordinato dalle autorità libiche”.

“È ora di finirla con la farsa della Sar libica: i libici non sono in grado di consentire un coordinamento di operazioni di salvataggio in linea con gli standard delle Convezioni internazionali”, le ha ricordato il deputato di Più Europa, Riccardo Magi. Meloni rilancia: “Mi pare evidente che siamo assistendo da diversi mesi ad una pressione migratoria che ha pochi precedenti attraverso il Mediterraneo centrale verso l’Europa e dunque l’Italia”, ha detto in risposta a un’interrogazione di Maurizio Lupi.

Sembra essersi dimenticato dei tempi in cui lei e Salvini accusavano i governi precedenti di non voler risolvere un problema che ha bisogno di molto di più della becera propaganda. Anche perché la presidente del Consiglio si ritrova tra incudine e martello sulle iniziative da prendere, a partire dal cosiddetto “Decreto Cutro” licenziato dopo il propagandistico Consiglio dei ministri sul luogo della strage che da ieri è in discussione in commissione Affari costituzionali al Senato.

Da una parte ci sono le osservazioni del Quirinale, con Mattarella che ha messo sotto la lente l’articolo 7 che vorrebbe stringere le maglie della protezione speciale (che il governo sognava di cancellare del tutto, prima dell’alt del Presidente della Repubblica): i richiami del Colle (e del Vaticano) hanno trovato terreno fertile nel sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Dall’altra parte ci sono i leghisti di Salvini che non hanno smesso di sognare il ripristino dei Decreti Salvini del 2018.

“Per ora sono congelati”, sussurrano i leghisti. “Buona parte dei contenuti dei miei decreti sono già stati ripresi nel decreto presentato a Cutro e altre parti potranno essere aggiunti nel dibattito parlamentare”, ha detto Salvini. Come dire: se l’iter parlamentare non sarà di nostro gradimento abbiamo già pronto l’affondo. Un passaggio delicato sarà anche l’articolo 6 del decreto con cui Meloni vorrebbe stanare gli scafisti “per l’orbe terracqueo”.

Nel comma 6 si legge che “il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando la morte o le lesioni si verificano in acque internazionali”, immaginando di estendere la competenza territoriale a piacimento. Lo slogan funziona in conferenza stampa ma dal punto di vista giuridico è più che velleitario. Pensare di andare ad arrestare chi sta in Turchia e in Libia (e sono quelli i trafficanti di cui occuparsi) è un’ingenuità o, peggio, una panzana in malafede. Ma la notizia politica è la convinzione del sottosegretario Mantovano che sia “il tempo di riscrivere la Bossi-Fini”. Praticamente un’ammissione. A qualcuno toccherà inventarsi di corsa una nuova narrazione.

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