Gufi o non gufi

di Gaetano Pedullà

Non mi impicco alla data purché le riforme si facciano, ha detto domenica Matteo Renzi spostando l’asticella fissata per abolire il Senato elettivo. Bene per il premier e per il suo osso del collo. Un po’ meno per il cammino delle riforme che il governo si è impegnato a fare. Di fronte alle resistenze, a cominciare dal suo stesso partito, il Presidente del Consiglio ha già cominciato a cedere. E se lo fa adesso, appena all’inizio e con una popolarità alle stelle, tra qualche mese saremo alla resa totale. Un brutto segno perché, gufi o non gufi, Renzi sta spingendo sulle riforme molto più di tanti leader riformisti a parole ma poi assoluti conservatori nei fatti. Giorgio Napolitano per primo. Mentre tornano a vedersi i vertici di partito con le Finocchiaro e gli Zanda di turno, il punto vero che interessa il Paese resta lo stesso di sempre: è possibile cambiare verso all’Italia, chiunque sia il leader politico, con una maggioranza parlamentare rabberciata come quella attuale? E qui entra in gioco il Capo dello Stato e l’ostinazione con cui ha tenuto in vita questo Parlamento dai numeri impossibili. L’osservazione ortodossa della Costituzione glielo ordinava. Così la parola d’ordine di Renzi e del Renzismo – rottamazione – hanno imboccato un canyon stretto, esattamente come quello che il premier si è avventurato a percorrere tradendo la promessa di non andare al governo senza passare prima dalle urne. E così Napolitano ha rimesso in pista la nomenklatura del Pd (cui il Presidente non è certo ostile). Vecchie glorie destinate a tramontare e che adesso, Renzi o non Renzi, sono tornati ago della bilancia della politica italiana.