I sei gol di Rossi al Mondiale. La scoperta della felicità davanti al mito di Pablito. L’impresa dell’82 vista da un bimbo di 7 anni. E la storia di un’amicizia nata da un’e-mail

Sette anni e mezzo. E per un bambino di sette anni e mezzo, che frequenta una scuola cattolica tutta maschile, ed è timorato di Dio, buono, ubbidiente, il calcio è tutto. è il succo concentrato di tutti i sogni, di tutti i desideri di cui ancora non conosci né forma né nome, è l’unico anelito di vaga ribellione concessa, è la fantasia che si fa gesto eroico, è la nave grande e robusta cui chiedi di portarti verso la felicità. Così ero io a sette anni e mezzo, quando mi apprestavo a vedere un mondiale, il primo mondiale della mia esistenza.

Tifavo per il Catania (in serie B), per la Juve (in serie A), e per tutte le italiane nelle coppe. Ma più di tutte, tifavo per l’Italia. Ed ero sicuro, sicuro come ero sicuro dell’esistenza di Dio, del paradiso e dell’inferno, che l’Italia avrebbe vinto il mundial. Ne ero sicuro per quelle strane intuizioni dei bambini, quelle certezze immotivate che nell’età dell’incoscienza ci costruiamo, facendole diventare fortezza. Ma ne ero sicuro anche perché durante un pomeriggio di pochi mesi prima, Sport sera diede una brutta notizia con parole che ancora ricordo: “Roberto Bettega verrà sottoposto ad una doccia di gesso, e salterà i mondiali” alché mio padre, seduto accanto a me sul divano replicò entusiasta: “Non gioca Bettega? Vinciamo i mondiali!”. Credo che nemmeno se campassi settecento anni, potrei mai dimenticare quell’istante, quel botta e risposta a distanza fra Ennio Vitanza e mio papà. E se lo diceva anche papà, era chiaro che la mia intuizione di bambino fosse vera, inconfutabile: avremmo vinto i mondiali.

CALCIO D’INIZIO. Prima del primo calcio d’inizio, imparai a memoria i nomi di tutti i 22 convocati delle 24 squadre del mondiale, Kuwait e Camerun compresi: il cervello dei bambini ha doti che da adulti poi dimentichiamo. Nelle partitelle in cortile con mio cugino o i miei amici, le nostre telecronache si riempivano di nomi nuovi, cui associavamo volti da eroi, da condottieri. Ma i temibili campioni di paesi lontani non erano l’unica novità. Un anno prima mio padre aveva prestato una consulenza gratuita per un signore di Bergamo, un imprenditore. Questi, dato che papà non si faceva pagare, gli regalò un oggetto misterioso. Un pesante elettrodomestico con scritto Jvc sul cartone esterno. “Cos’è, papà?”.

Un videoregistratore, era. Ma non potevamo usarlo, perché avevamo un vecchio TV-color bianco e nero, non predisposto. Allora, a ridosso di quel giugno, papà comperò un Nordmende a colori. Il primo. Ed ebbe un’idea: registreremo tutti i gol dei mondiali. Non c’era telecomando, dunque ad ogni gol (di ogni partita, perché è chiaro che io non potevo perdere nemmeno mezzo minuto di nessuna partita), si zompava in fretta verso il Jvc e si premeva Rec e Play contemporaneamente, per registrare i replay di ciascun gol. Ne nacquero due cassette preziose, che ancora conserviamo.

Il resto è storia, o quasi. Il mio idolo assoluto Paolo Rossi, sbeffeggiato dai miei amici in quanto “cesso” (allora non si denigrava dicendo “pippa”, ma “cesso”), si riscatta per la mia personale felicità contro il Brasile, in una giornata perfetta. Gli amici dei miei genitori venivano a vedere tutte le partite dell’Italia a casa nostra, portando puro entusiasmo, e commuovendosi quando – con la città di Catania che si riempiva di bandiere tricolori – mi videro costruire una minuscola bandierina dell’Italia, con uno stuzzicadenti ed un pezzetto di carta incollato sopra. Risero a quell’iniziativa con occhi che non gli avrei mai più rivisto.

Mio nonno, mosso a tenerezza, mi regalò allora una enorme bandiera, antica, perché la esponessi in caso di vittoria finale. E così fu: un tricolore con l’ingombrante stemma Savoia nel mezzo, adornava il nostro portone di legno massiccio, in una delle serata più felici di sempre, per me. Perché quei mondiali per me furono soprattutto la scoperta della felicità, del potere taumaturgico che il calcio ha (a volte con dolore mi vien da dire “aveva”) di regalare momenti di purissima, distillata felicità.

Perché è un gioco che riesce a fare dimenticare tutto il resto, a rendere ogni altro pensiero, ogni altra (pre)occupazione relativa: per 90 minuti la felicità si chiama “gol”. E nessun gol, nessuna vittoria, unisce ed esalta in maniera così pura come durante un mondiale, e quello fu il mondiale perfetto. Così per anni, per anni davvero, ogni qual volta ho rivisto quelle immagini – la tripletta di Rossi, la parata di Zoff, il gol di Tardelli, il gol di Altobelli, Pertini che esulta, Bearzot portato in trionfo- mi sono commosso, mi sono riempito di felicità. Ancora oggi talvolta ci piango su. Perché quelle immagini mi accendono il ricordo di quella, felicità. Una felicità unica, temo irripetibile. In effetti, pensateci, quando mai si è felici, nella vita, come si riusciva ad essere felici a sette anni?

POST SCRIPTUM. Questo breve raccontino autobiografico, insieme ad un monologo su Italia-Germania, vennero letti quasi per caso da Paolo Rossi, mio idolo personale mai più eguagliato da nessuno. Fu così gentile da scrivermi una bellissima mail, in cui ricordava la goduria per aver fatto gol a Schumacher e battuto il grande Brasile prima e la dura Germania in finale. Diventammo amici, passammo insieme una bellissima giornata in campagna da lui, con la moglie Federica e le figlie, a parlare di calcio, di scrittura e di vino. C’era il progetto di scrivere insieme una miniserie in due puntate. La notizia della sua scomparsa, ieri, ci ha spezzato in due. Con Paolo Rossi se ne va un bellissimo pezzo della nostra infanzia, se ne va chi ci aveva fatto scoprire, tutto d’un tratto, la felicità.
Addio Pablito, e grazie di tutto.