L’arresto di Xu Zewei il 3 luglio scorso all’aeroporto di Malpensa è un atto di scena in un teatro che l’Italia non controlla. L’uomo, cittadino cinese di 33 anni, è finito in manette su richiesta degli Stati Uniti, che lo accusano di essere un hacker statale coinvolto nella campagna di cyber-spionaggio “Hafnium”: un’operazione che, secondo il Dipartimento di Giustizia Usa, ha colpito migliaia di sistemi nel mondo – tra cui università, studi legali e istituti di ricerca sul Covid – per conto del Ministero della Sicurezza di Stato cinese.
Da quel momento, l’Italia si è ritrovata incastrata tra le richieste perentorie di Washington e le reazioni – per ora misurate ma ferme – di Pechino. Il nome Xu Zewei, diventato improvvisamente il centro di un braccio di ferro globale, mette alla prova la capacità di Roma di reggere l’urto tra le due superpotenze. Non si tratta di decidere se Xu sia colpevole o innocente: quella è materia che, in caso di estradizione, spetterebbe a un tribunale americano. Qui la posta in gioco è politica, non processuale.
Il precedente che brucia: l’ombra lunga di Artem Uss
Washington pretende il rispetto della sua autorità extraterritoriale: la vicenda Xu è stata trattata fin dall’inizio come una questione strategica, non giudiziaria. L’ambasciata americana ha segnalato l’arrivo di Xu prima ancora che atterrasse, il Dipartimento di Giustizia ha diffuso un comunicato dettagliato, e il segretario di Stato Usa, Marco Rubio, ha preteso chiarimenti dal ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani. Come se non bastasse, in un memo formale l’amministrazione Biden ha evocato il precedente più imbarazzante degli ultimi anni: il caso Artem Uss, l’oligarca russo evaso dai domiciliari in Italia nel 2023 mentre era in attesa di essere estradato proprio negli Usa.
Non si tratta più solo di un hacker da processare, ma della reputazione internazionale dell’Italia, già scossa da quella clamorosa fuga. Da allora Washington non si fida più. L’arresto di Xu, quindi, è diventato una verifica sul campo della credibilità italiana.
L’equilibrismo della Farnesina
Dall’altra parte, Pechino osserva e annota. Ha chiesto assistenza consolare immediata, ha parlato ufficialmente di “diritti legittimi” da tutelare, e non ha escluso – seppur senza dichiararlo – ritorsioni economiche o diplomatiche. Il rischio che aleggia è quello della “hostage diplomacy”: arresti ritorsivi contro cittadini o imprenditori italiani in Cina, per trasformare un processo in una trattativa bilaterale.
Nel mezzo, Tajani. Il ministro degli Esteri si trova a gestire un equilibrio complicatissimo. Da un lato deve rassicurare Washington sulla lealtà italiana all’alleanza atlantica; dall’altro non può permettersi di innescare una crisi con la Cina, partner economico fondamentale nonostante il progressivo allontanamento da Pechino sancito dal disimpegno italiano dalla Belt and Road Initiative. Il caso Xu costringe Tajani a indossare una veste che non gli è abituale: quella del decisionista intransigente, sotto la lente di due potenze che non ammettono esitazioni.
Il processo è altrove, ma il giudizio è qui
La difesa di Xu, affidata all’avvocato Enrico Giarda, punta su una strategia diametralmente opposta: “Non è lui”, dicono. Nessun precedente penale, nessun legame con l’azienda Powerock citata nell’atto d’accusa, ma impiegato presso un’altra società, la Gta Semiconductor. Si parla di omonimia, di furto di identità digitale, di un account violato. Una tesi che suona come una richiesta implicita all’Italia di non farsi usare come terreno di scontro altrui.
Eppure è esattamente questo il ruolo che Roma sta giocando, suo malgrado. Se Xu verrà estradato, l’Italia manderà un messaggio chiaro a Pechino: qui comandano le priorità di Washington. Se invece l’estradizione venisse negata – o, peggio, se si verificasse un’altra fuga – allora a dubitare della nostra affidabilità sarà l’alleato più potente, quello che già una volta ha dovuto spiegare a Capitol Hill perché un ricercato di “primario interesse strategico” sia sparito sotto la nostra vigilanza.
La magistratura dovrà decidere se le prove americane bastano a dimostrare che l’uomo arrestato è davvero l’autore delle incursioni informatiche imputategli. Ma al di là dei codici, la decisione peserà sul posizionamento internazionale dell’Italia. E anche sul futuro di chi quel posizionamento è chiamato oggi ad amministrarlo.