Si ripete da mesi, come se fosse già legge, come se fosse scontato. Il 2% del Pil da destinare alle spese militari è diventato il feticcio della politica italiana, il metro di misura della fedeltà atlantica, il lasciapassare per sedersi ai tavoli che contano. Eppure, dietro la formula, non c’è alcun vincolo giuridico, nessuna ratifica parlamentare, nessuna necessità strategica dimostrata. Solo una promessa non vincolante, trasformata in comandamento contabile da chi ha scelto di blindare le armi e lasciare il resto scoperto.
Secondo l’Osservatorio Mil€x, la spesa militare “diretta” prevista per il 2025 ammonta a poco più di 32 miliardi di euro, pari all’1,42% del Pil stimato. Una cifra inferiore a quella dichiarata dal governo, che la colloca all’1,57% includendo voci esterne al perimetro della difesa pura: fondi del Mimit per gli armamenti, spese del Mef per le missioni all’estero, pensioni Inps ai militari in congedo e una parte dei Carabinieri. Così il totale sale a 35,4 miliardi. Ma per raggiungere davvero il fatidico 2% servirebbero almeno 45,1 miliardi. Mancano quasi dieci miliardi, e il problema non è solo contabile.
Le voci camuffate della guerra
Per colmare il divario si stanno allargando i confini di cosa viene definito “spesa militare”. Il governo tenta di far rientrare nel calcolo corpi che per la Nato non rispondono ai criteri minimi di definizione: Guardia di Finanza (quasi un miliardo), Guardia Costiera (oltre tre miliardi), Carabinieri (oltre sette miliardi). Tutti costi che, se sommati, aiuterebbero a raggiungere l’obiettivo, ma che difficilmente passeranno al vaglio dell’Alleanza. Le linee guida Nato parlano chiaro: solo le forze addestrate secondo criteri militari, sotto comando diretto e impiegabili in operazioni fuori dai confini nazionali possono essere incluse.
Attualmente l’Italia riesce a conteggiare una parte dei Carabinieri, pari a 8.600 unità “deployable”, che valgono 543 milioni. Per Guardia Costiera e Guardia di Finanza, ogni tentativo di inclusione è stato finora respinto. Eppure si insiste. Il trucco somiglia a quello dei carri armati spostati da una parte all’altra nei piazzali per gonfiare l’inventario. Si sposta la spesa da una colonna all’altra del bilancio, la si moltiplica con una riga di Excel, la si presenta in sede internazionale come prova di allineamento. Ma resta un’illusione.
Quando la fedeltà costa più della verità
Nel 2024 la differenza tra i dati Mil€x e quelli “in chiave Nato” dichiarati dal ministero della Difesa era di 3,8 miliardi. I ricalcoli OCSE e SIPRI mostrano scostamenti costanti: rispettivamente 200 e 600 milioni in più rispetto alle stime dell’osservatorio. Il trend è chiaro: i numeri vengono forzati verso l’alto, anche a costo di forzare la realtà. La spesa militare diventa l’unica voce blindata in un bilancio pubblico fatto di tagli, rinunce, revisioni al ribasso.
Il riarmo è già in corso: 73 miliardi impegnati in programmi attivi. E intanto si alzano le soglie. Gli Stati Uniti chiedono il 3,5%, qualcuno ipotizza il 5%. Il 2% serve più a placare Washington che a rispondere a un bisogno reale del Paese. Nessuna analisi tecnica ha mai giustificato quella cifra. Il parametro lega la spesa pubblica a un dato instabile come il Pil, fluttuante, indefinito, gonfiato dalla ricchezza privata. Un esercizio ideologico travestito da necessità contabile.
Ogni euro arruolato nella difesa senza confronto pubblico è un euro sottratto alla politica. Ogni cifra manipolata per esibire lealtà è un passo più vicino alla sottomissione. In un contesto in cui la spesa militare si impone senza dibattito, la sola cosa da difendere è il diritto a fare domande. E il primo bersaglio, ancora una volta, è la trasparenza.