di Fabrizio Gentile
Ottocento emendamenti stanno a significare un evidente non gradimento del Parlamento rispetto al testo varato dal Governo. A questo ci aggiungiamo la protesta (per la verità più di facciata che di sostanza) dei sindacati, poi il giudizio devastante di Confindustria, il no dei sindaci di tutta Italia, le proteste di piazza. Poi gli strali di Grillo, le critiche di Berlusconi, le frenate di Renzi. Ci mancano solo le Giovani Marmotte e poi Letta ha fatto l’en plein delle critiche. Fino a oggi il blocco granitico sul quale appoggiarsi è stato il Quirinale, ma neanche quello è più così solido: nell’ultimo messaggio, Napolitano si è “dimenticato” di ricordare l’ipotesi di proprie dimissioni in caso il Parlamento continuasse “a pestare l’acqua nel mortaio” sulla legge elettorale. Una mancata sottolineatura alla quale ormai non si era più abituati, essendo diventato il richiamo – implicito o esplicito che sia – l’argine contro il quale si infrangeva ogni ipotesi di fronda a palazzo Chigi. Ma tant’è. Oggi Letta riceverà l’ennesima fiducia su una manovra di cui non si fida nessuno. Il commissario europeo per gli Affari economici e monetari, Rehn, solo pochi giorni fa affermava che “L’Italia deve rispettare un certo ritmo di riduzione del debito, e non lo sta rispettando. Per farlo, lo sforzo di aggiustamento strutturale avrebbe dovuto essere pari a mezzo punto del Pil e invece è solo dello 0,1%”.
La posizione del premier
”Ho la responsabilità di tenere la barca Italia in equilibrio e voglio che ci siano strumenti per la crescita senza sfasciare i conti” anche perché solo così l’Italia non avrà “nulla da temere” da Bruxelles. Enrico Letta, al suo arrivo al Consiglio europeo, si concede alle domande dei giornalisti. Appare evidente la voglia di togliersi diversi sassolini dalle scarpe e replicare alle critiche piovute da Confindustria e dal suo presidente. Giudizi che nel governo reputano non solo ingenerosi, ma anche sbagliati. “I sindacati hanno mostrato maggiore senso di responsabilità”, si sfoga una fonte di governo. Al presidente del Consiglio non deve proprio essere piaciuto quello che considera un ‘attacco’ da parte di Giorgio Squinzi. Nel colloquio di ieri, il premier aveva spiegato al capo degli industriali la ratio della manovra. Cosi’ come la necessità di prevedere una clausola di salvaguardia relativa al fondo per il cuneo fiscale. I soldi della spending review, aveva assicurato Letta, andranno a ridurre il costo del lavoro, ma dovevamo dare un segnale all’Europa. Perché il premier è stretto fra due fuochi: internamente le parti sociali e i partiti che premono, protestando contro una manovra a loro giudizio timida e insufficiente. Esternamente deve fronteggiare quegli “ayatollah del rigore” (come li ha definiti qualche settimana fa) che non si accontentano mai del risanamento di bilancio italiano.
Il bonus europeo
Ma dato che il governo non intende rinunciare a quel ‘bonus’ promesso dall’Europa ai Paesi virtuosi, l’unica via è cercare di tenere il deficit sotto il 3%. Non è un “capriccio”, ma una scelta dettata da un’attenta analisi dei vantaggi e degli svantaggi, spiega una fonte diplomatica. Nelle parole del premier, al suo arrivo al summit Ue, si coglie tutta l’amarezza di chi è convinto che la legge di stabilità, viste le condizioni iniziali, sia un buon compromesso fra l’esigenza di tenere i conti in ordine e l’obbligo di dare un po’ di ossigeno all’economia. “Nessuno ha la bacchetta magica” e “nessuno stampa moneta”, ha rimarcato Letta, aggiungendo piccato: “E penso che gli imprenditori della Confindustria dovrebbero essere i primi a sapere che tenere i conti a posto vuol dire far calare gli spread” .