“Il mondo è già in guerra, stiamo tornando alla corsa agli armamenti”: parla il candidato M5S in Ue, Biggeri

L'intervista al candidato del Movimento 5 Stelle in Ue, Ugo Biggeri: "La transizione ecologica è a rischio".

“Il mondo è già in guerra, stiamo tornando alla corsa agli armamenti”: parla il candidato M5S in Ue, Biggeri

Ugo Biggeri, lei è uno dei fondatori di Banca Etica e oggi si candida alle europee nella circoscrizione Nord-Est: perché ha scelto proprio il Movimento 5 Stelle?
“Perché nel Movimento ho trovato interesse alla mia candidatura che è stata proposta dal Presidente Giuseppe Conte. Inoltre, c’è stata una grande disponibilità all’ascolto, qualità questa assolutamente non scontata in politica, dei contributi al programma sulla finanza etica, la cooperazione internazionale e l’economia sociale, temi che mi stanno molto a cuore”.

Teme che la sua candidatura sia stata utilizzata in modo strumentale in questa lotta ad assicurarsi i “pacifisti della prima ora” che oggi, tra molti partiti, sembrano andare tanto di moda?
“No, questo non lo temo perché a differenza di altri partiti il Movimento 5 Stelle ha una posizione chiara, consolidata e coerente sul tema della pace. Nel programma sono proponiamo delle azioni concrete per raggiungerla, come quella di una Conferenza di Pace o un cessate il fuoco immediato: posizioni, mi permetta, in linea con le richieste di Papa Francesco”.

Negli scorsi giorni Mediobanca ha pubblicato uno studio in cui si evidenzia che la spesa globale per la Difesa ha toccato il suo massimo storico nel 2023, pari al 2,3% del Pil mondiale: cosa ne pensa?
“Ne penso male. Le spese per gli armamenti sottraggono risorse a investimenti più produttivi o più utili per la collettività. Stiamo tornando alla corsa agli armamenti tipica degli anni della guerra fredda, ma senza la consapevolezza di allora della necessità di evitare conflitti diretti con le potenze nucleari per evitare escalation drammatiche. I soldi in armamenti si pagano due volte: con la sottrazione di risorse ai bilanci pubblici e con i costi umanitari, ambientali e delle distruzioni che comportano”.

L’aumento degli investimenti militari è stato del 6,8% in un anno: stiamo davvero andando verso un nuovo grande conflitto e un mondo in guerra?
“Siamo già in un mondo in guerra. Se analizziamo lo scacchiere internazionale non ci sono solo le situazioni drammatiche dell’Ucraina e della Palestina, ma ci sono conflitti in Congo, Sudan, Afghanistan, in Georgia (parzialmente occupata dalla Russia), e molti altri Paesi. Abbiamo bisogno di diplomazia e possibilmente di una voce comune europea in politica estera e con una difesa comune”.

Anche il futuro dell’Ue non sembra più il Green deal ma quello di un’economia di guerra: la transizione ecologica è a rischio?
“Purtroppo sì. Dalla transizione green dipende il future del pianeta e quindi va considerata come una opportunità e non semplicemente come un costo. Le stime della Commissione europea parlano di 620 miliardi di ulteriori investimenti per questa transizione. Per noi questi dovrebbero ricadere sulla finanza speculativa internazionale, sui grandi estrattori e consumatori di fossili e sulle compagnie internazionali che eludono le tasse nei paradisi fiscali. Abbiamo bisogno di una transizione ecologica giusta che aiuti le fasce più deboli e le piccole e medie imprese”.

Uno dei temi su cui lei si è sempre battuto è quello delle banche che non devono investire nell’industria delle armi: quanto gli istituti seguono questa linea e quanto invece puntano sul settore difesa?
“Le banche sono molto più sensibili di ciò che si pensi sul tema. Alcuni primari istituti finanziari in questi anni, anche grazie a specifiche iniziative di Banca etica, hanno adottato delle policy su export e investimenti in armi che almeno escludono investimenti in quelle controverse o in quelle nucleari. Questo processo è un frutto indiretto della legge 185/90 che regolamenta il commercio d’armi in Italia. Gli investimenti in armamenti non devono essere considerati finanza sostenibile”.

Lei ha detto di essersi trovato d’accordo con il M5S sull’attenzione alle fasce più deboli: in cosa, concretamente, questo suo impegno può tradursi in Ue? Quali temi vuole affrontare al Parlamento europeo?
“I programmi europei sull’economia sociale sono degli strumenti potenzialmente molto efficaci anche per le piccole imprese italiane. Quindi anche se sono i singoli Stati a definire che tipo di economia promuovono, Bruxelles può mettere a disposizione fondi, idee e strategie comuni. Tutte le politiche di sostegno alle fasce deboli come salario minimo e reddito di cittadinanza vanno perseguite soprattutto ora che il mondo del lavoro a livello globale è sempre più fluido e con minori garanzie”.

Un’altra questione è quella delle tasse. Lei dice di voler passare dalle tasse sul lavoro a quelle, per esempio, sulle emissioni dannose per l’ambiente: ci spiega questa proposta?
“In Italia abbiamo un sistema fiscale vecchio di un secolo che non tiene contro per esempio dei patrimoni e non favorisce quella progressività della tassazione sancito dalla Costituzione. Fino a 50 anni fa la tassazione sul costo del lavoro spingeva le imprese a innovare sul fronte della produttività, oggi questo paradossalmente può essere controproducente per l’ambiente. Se si diminuisse il costo fiscale del lavoro e se si tassasse il consumo di materie prime e l’energia fossile allora l’innovazione si sposterebbe sulla transizione energetica e i lavoratori avrebbero più risorse. Non è un passaggio facile e va gestito bene per gli effetti sulle fasce più deboli ma porterebbe benefici per tutta la società. Sarebbe anche opportuno tassare le transazioni finanziare speculative e abolire i paradisi fiscali che, favorendo sempre e solo le grandi multinazionali, schiacciano i piccoli produttori e le piccole imprese che sono l’ossatura della nostra economia”.