Il porno al lavoro è ammesso. Guai a violare la privacy. Secondo la Cassazione i fannulloni non sono licenziabili: i dati sui computer aziendali sono sensibili

di Clemente Pistilli

Navigare su internet e guardare filmini porno durante l’orario di lavoro “non è reato”. O meglio l’azienda non può sfruttare quel materiale per punire e poi licenziare il proprio dipendente: è una violazione della privacy. A stabilirlo, respingendo il ricorso fatto da una società che gestisce una casa di cura nel palermitano, è stata la I sezione civile della Corte di Cassazione.

Il caso
Analizzando il computer dell’addetto all’accettazione e al banco referti, alla ricerca di un virus, la spa aveva scoperto che il lavoratore, mentre era in servizio e nonostante per l’attività che doveva svolgere non avesse necessità di navigare sul web, era spesso in Rete su siti di associazioni sindacali, religiose e soprattutto su quelli pornografici. Tra un paziente da registrare e l’altro, qualche immagine o video spinti sembra rendessero più gradevoli al lavoratore le ore trascorse dietro il bancone della casa di cura. L’azienda, con in mano tale materiale, aveva punito, querelato e infine licenziato il dipendente. Quest’ultimo ha chiesto l’intervento del Garante della privacy. Il 2 febbraio 2006 il provvedimento dell’allora garante Francesco Pizzetti, che ha ritenuto fondate le lamentele del lavoratore e vietato alla società di utilizzare i dati estrapolati dal computer, ritenendoli dati sensibili perché “relativi a convinzioni religiose e politiche nonché alle tendenze sessuali”.
La vicenda è così approdata davanti al Tribunale di Palermo, che il 26 giugno 2008 ha avallato l’operato dell’Authority, e sulla stessa linea si è ora mantenuta la Suprema Corte. La società che gestisce la casa di cura è finita accusata di aver trattato “dati sensibili” senza consenso del lavoratore e senza informare quest’ultimo della possibilità che potessero essere effettuati controlli sui terminali dell’ufficio. Nel mirino, al posto del lavoratore che anziché lavorare guardava video hard, è così finito il datore di lavoro. Per il Garante la società è andata oltre il consentito nei controlli, in quanto si sarebbe dovuta limitare “a provare in altro modo l’esistenza di accessi indebiti alla rete e i relativi tempi di collegamento”. Nel ricorso presentato in Cassazione, la società che gestisce la casa di cura nel capoluogo siciliano ha specificato che visitare vari siti web a contenuto pornografico non può integrare “un dato attinente alla vita sessuale dell’utente”. Inutile. Gli ermellini hanno ritenuto corretta l’interpretazione della vicenda data prima dal Garante e poi dal Tribunale di Palermo. Ricorso respinto e azienda condannata anche a pagare oltre diecimila euro di spese processuali.

La tesi degli ermellini sui siti hard
I giudici della Cassazione, nella sentenza emessa, hanno precisato che “pornografia è la trattazione o rappresentazione di soggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore, e l’erotismo è l’insieme delle manifestazioni dell’istinto sessuale sia sul piano psicologico e affettivo sia su quello comportamentale. Secondo le sezioni penali di questa Corte la pornografia è compresa nel più ampio concetto di oscenità e si identifica con la descrizione o illustrazione di soggetti erotici, mediante scritti, disegni, discorsi, fotografie, che siano idonei a far venir meno il senso della continenza sessuale e offendano il pudore per la loro manifesta licenziosità”. E ancora: “In sessuologia si afferma che nell’uomo la sessualità appare strettamente legata a fattori di ordine psicologico, culturale e sociale, che in ogni individuo prevalgono sui fattori biologici, costituendo la base della cosiddetta vita sessuale o comportamento sessuale, teso non solo alla finalità riproduttiva ma anche alla ricerca del piacere”. Una lunga analisi del sesso nelle diverse sfaccettature fatta dagli ermellini per sostenere che “è indubbio che sono dati personali idonei a rivelare la vita sessuale, da intendersi come complesso delle modalità di soddisfacimento degli appetiti sessuali di una persona, quelli relativi alla navigazione in internet con accesso a siti pornografici”. La privacy sulla pornografia salva così il lavoratore che, tra un paziente e l’altro, si abbandonava ai piaceri del sesso virtuale.