di Maurizio Grosso
Un rinvio per ragioni “formali”, almeno secondo quanto ha spiegato il presidente del consiglio, Enrico Letta. Ma i tasselli che mancano non sono di poco conto. Ieri il consiglio dei ministri ha deciso di rinviare il varo del decreto per l’abolizione della seconda rata dell’Imu. Un’operazione che vale 2,4 miliardi di euro. Il fatto è che la quadra sulle coperture non è ancora stata trovata del tutto. Tra l’altro il provvedimento in questione dovrebbe viaggiare di pari passo con il decreto sulla rivalutazione delle quote della Banca d’Italia. Piano, quest’ultimo, che dovrebbe collocare il valore stesso tra i 5 e i 7 miliardi di euro. E visto che le quote di palazzo Koch sono detenute dalle principali banche italiane, l’opperazione sarebbe un modo per consentire alle banche di rafforzare il loro patrimonio e al Fisco di incassare più di un miliardo di euro in conseguenza del prelievo sulla rivalutazione. Peccato che sul tema sia indispensabile un’autorizzazione della Bce che ancora deve arrivare. Ma il rinvio del decreto sull’Imu è stato determinato anche da una richiesta del ministro dell’agricoltura, Nunzia De Girolamo, per approfondire la questione dell’abolizione dell’imposta sui terreni agricoli. Nei giorni scorsi sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia si è registrata una polemica alimentata dalla Consob. Un documento del capo divisione studi della Commissione, Giovanni Siciliano (anche se sviluppato a titolo personale), ha messo in discussione la stima di 5-7 miliardi, sostenendo che il valore delle quote non dovrebbe essere collocato oltre gli 1,3-1,7 miliardi. Tanto per cominciare il documento mette nel mirino il cosiddetto dividend discount model, ovvero il criterio di valutazione delle quote di Bankitalia basato sulla stima del valore del flusso di dividendi futuri che sarebbero percepiti dai partecipanti al capitale di palazzo Koch in base all’attuale disciplina. Questione a dir poco tecnica, che ha portato gli esperti individuati da via Nazionale a tirar fuori un valore tra i 5 e i 7,5 miliardi. Il presupposto del documento redatto dal capo della divisione studi della Consob, invece, è che “i profitti di una banca centrale sono di proprietà della collettività perché ottenuti sfruttando in regime di monopolio un bene pubblico, ovvero il diritto di signoraggio (in pratica l’insieme dei redditi derivanti dall’emissione di moneta, ndr)”. Per questo “gli utili delle banche centrali vengono distribuiti allo Stato”. Ne consegue che “tutti gli utili della Banca d’Italia derivano direttamente o indirettamente dallo sfruttamento di un bene pubblico. I soggetti titolari delle quote del capitale di Banca d’Italia non possono dunque vantare alcun diritto su quegli utili”. E quindi “non ha senso applicare il metodo del dividend discount model per valutare le quote”. Il documento ammette comunque che lo Stato possa indennizzare le banche tenendo conto del prezzo pagato per acquistare le quote, ovvero 156 mila euro. Ebbene, supponendo di collocare l’acquisto delle quote nel 1893, data di nascita della banca centrale, “il coefficiente Istat di rivalutazione monetaria dal 1893 al 2011 ci dice che il valore delle quote al 2011 è pari a 1,27 miliardi”. A una valutazione analoga si arriverebbe anche se si tenesse conto “dei dividendi che per statuto la Banca d’Italia riconosce ai detentori delle quote”. Calcolando la proiezione del dividendo atteso verrebbe fuori che “il valore delle quote è pari a 1,7 miliardi”. Insomma, cifra nettamente inferiore a quelle stimate dagli esperti. Per non parlare della conclusione dello studio. Visto che “solo lo Stato può decidere sulla destinazione di risorse prodotte con beni pubblici”, come quelle di Bankitalia, “è importante che lo Stato sia il solo azionista della banca d’Italia”.