Non c’è modo per bloccare le porte girevoli tra politica e magistratura. La maggioranza giallorossa si è accordata su una nuova legge che cambia le regole per l’elezione al Csm, impedendo l’accesso a Palazzo dei Marescialli a chi nei due anni precedenti ha avuto incarichi di governo, sia nazionale che locale, e ai segretari di partito. Ma niente stop per i parlamentari. Un’intesa al ribasso che tocca per l’ennesima volta il problema senza risolverlo.
LE NOVITA’. La riforma è stata presentata come uno strumento per bloccare gli abusi delle correnti della magistratura, dopo lo scandalo dell’inchiesta della Procura di Perugia con al centro Luca Palamara, e per allontanare da Palazzo dei marescialli interferenze della politica attiva. Il Pd però si è opposto al tentativo del guardasigilli Alfonso Bonafede di estendere il divieto di accesso al Consiglio superiore della magistratura anche per chi nei due anni precedenti la nomina ha rivestito il ruolo di parlamentare. Un aspetto che potrebbe essere cambiato dal Parlamento con eventuali modifiche alla norma. Bonafede ha poi previsto un sistema elettorale con 19 collegi, con il doppio turno, con liste che nel primo dovranno essere composte rispettando il principio della parità di genere, al fine di garantire una maggiore presenza femminile a Palazzo dei Marescialli. Dopo un ampio dibattito è stato quindi deciso che l’elettore al primo turno dovrà esprimere quattro preferenze. Al Ministero della giustizia dovrà ora essere messo a punto il testo, per approdare al massimo entro la prossima settimana in Consiglio dei Ministri e portarlo poi in Aula. Contraria a una simile riforma Magistratura Indipendente.
LE REAZIONI. “Condividiamo pienamente l’esigenza, sia politica che culturale, di una radicale e definitiva scissione del legame tra le correnti interne alla magistratura e i candidati al Csm – hanno sostenuto Mariagrazia Arena e Paola D’Ovidio, presidente e segretario di M.I. – dalla quale non è ormai possibile prescindere se davvero si vuole evitare che i candidati, una volta eletti, rispondano più alle esigenze dei loro gruppi di riferimento che a un oggettivo e disinteressato esercizio delle funzioni consiliari. Sennonché, da articoli di stampa e da quanto annunciato alcune settimane fa al convegno di Area dal sottosegretario Giorgis, apprendiamo che uno dei capisaldi su cui dovrebbe poggiare la riforma sarebbe l’eliminazione del collegio unico nazionale e la creazione di collegi elettorali di dimensioni contenute in cui realizzare una prima votazione, con eventuale ballottaggio tra i più votati. Una soluzione che, per la verità, soddisfa solo parzialmente i desideri dei colleghi di Area, per i quali, stando alla lettura della loro proposta, sarebbe preferibile un sistema binominale maggioritario, tra i cui effetti positivi si inserisce anche la circostanza che i gruppi associati manterrebbero un ruolo nell’organizzazione delle candidature”. Per loro la riforma su cui è stata trovata l’intesa, dietro il dichiarato scopo di limitare l’influenza dei gruppi associativi, finirà per aumentarne il peso: “Permarrebbero sempre le cooptazioni correntizie dei candidati; in sede di ballottaggio (ove previsto) sarebbero inevitabili accordi associativi di desistenza e incentivate pratiche più o meno occulte di apparentamento tra le correnti, anche basate su sostegni incrociati, che tengano in considerazione gli esiti del primo turno in più distretti; in ogni caso sarebbero premiati solo i gruppi associativi storicamente più strutturati sul territorio”.