Nella notte tra il 7 e l’8 ottobre 2025, a circa cento miglia da Gaza, la marina israeliana ha bloccato la Conscience e le otto barche che la scortavano nella missione umanitaria organizzata dalla Freedom Flotilla Coalition e dall’associazione Thousand Madleens. Prima dell’abbordaggio, un fitto sciame di droni ha sorvolato le imbarcazioni, seguito da elicotteri e gommoni d’assalto. Le telecamere di bordo sono state distrutte a colpi di mitra e le comunicazioni azzerate con i jammer israeliani.
A bordo della Conscience viaggiavano oltre cento persone, tra cui novanta tra medici, infermieri e soccorritori, insieme a giornalisti internazionali. Portavano diciotto tonnellate di medicinali e materiale sanitario destinato agli ospedali di Gaza, dove mancano perfino gli anestetici. L’operazione, condotta a ridosso delle acque territoriali egiziane, è stata definita dal ministero degli Esteri israeliano come “un tentativo inutile di violare il blocco navale legittimo”.
Il linguaggio e la legge
Le organizzazioni promotrici parlano invece di «atto di pirateria». Michele Borgia, portavoce italiano della Freedom Flotilla, ha denunciato un «blitz a luci spente» in acque internazionali e il sequestro di navi civili impegnate in una missione pacifica. Anche la Turchia ha definito l’operazione «un atto di pirateria contro una missione umanitaria», mentre diversi parlamentari europei chiedono l’intervento delle istituzioni Ue.
Il diritto del mare, regolato dalla Convenzione di Montego Bay del 1982, vieta esplicitamente l’abbordaggio di navi civili in acque internazionali se non in caso di traffici illeciti o minaccia armata. Nessuna di queste condizioni ricorreva nella spedizione: le imbarcazioni avevano notificato rotta e carico, e avevano dichiarato la natura umanitaria della missione. Israele continua però a rivendicare un blocco navale su Gaza – in vigore dal 2007 – che l’Onu ha più volte definito “una punizione collettiva”.
I dieci italiani e il silenzio europeo
Tra i fermati ci sono una decina di cittadini italiani. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha confermato che l’ambasciata e il consolato a Tel Aviv stanno seguendo il caso, garantendo «l’assistenza consolare necessaria» e chiedendo «il rispetto dei diritti individuali fino all’espulsione». Dall’opposizione, Arturo Scotto (Pd) – reduce dalla missione a bordo della nave Karma fermata la settimana scorsa – ha denunciato che «si ripete lo stesso copione: navi umanitarie bloccate in acque internazionali, governi immobili e un corridoio marittimo che resta chiuso dal 2007».
Le immagini inviate prima del blackout mostrano gli incursori che salgono a bordo con visori notturni e distruggono le telecamere. Un messaggio inviato da Vincenzo Fullone, portavoce italiano della spedizione, alle 23.30 raccontava: «Ci sono droni ovunque, temiamo che questo possa essere l’ultimo video». Poche ore dopo, le comunicazioni si sono interrotte definitivamente.
Il precedente e la reazione
È il secondo episodio in meno di una settimana. Il 1° ottobre era stata la volta della Karma, appartenente alla Global Sumud Flotilla, intercettata e sequestrata con a bordo parlamentari e giornalisti. Le organizzazioni internazionali denunciano che Israele stia agendo in totale impunità, approfittando dell’inerzia diplomatica occidentale.
L’azione di stanotte avviene mentre in Egitto si discute un piano di pace che, secondo fonti diplomatiche, potrebbe vedere una prima fase di attuazione entro venerdì. Ma mentre si parla di “accordo”, la realtà nei fatti è quella di un assalto armato contro chi trasportava medicine.
Dalla Conscience non arrivano più segnali. Gli attivisti chiedono che i governi europei chiamino le cose con il loro nome: pirateria in acque internazionali, violazione del diritto umanitario, sequestro di civili. Perché, come ricordano loro stessi, le parole sbagliate sono l’ultimo rifugio delle complicità.