Rinnovabili, l’Italia rallenta nei primi dieci mesi del 2025: cause, effetti e rischi per gli obiettivi 2030

Rinnovabili, dopo due anni di crescita record il 2025 segna una frenata: scelte politiche, norme confuse e tagli frenano la transizione.

Rinnovabili, l’Italia rallenta nei primi dieci mesi del 2025: cause, effetti e rischi per gli obiettivi 2030

La corsa alle rinnovabili si arresta all’improvviso. Nei primi dieci mesi del 2025 l’Italia installa 5,4 GW di nuova potenza rinnovabile, con un calo del 10% rispetto allo stesso periodo del 2024. Gli impianti sono il 27% in meno. I dati elaborati per il Forum QualEnergia mostrano un Paese che rallenta proprio quando avrebbe dovuto accelerare e mantenere quegli otto gigawatt l’anno necessari per avvicinarsi agli obiettivi europei. È una frenata che pesa più dei numeri: racconta un clima politico e amministrativo che ha perso direzione.

Il ritmo che si spezza

Il governo rivendica la «messa in ordine» della materia, ma i fatti restituiscono un quadro ingolfato. La sentenza del Tar Lazio che ha bocciato parti del decreto sulle aree idonee ha costretto l’esecutivo a rivedere la mappa dei territori. Intanto il nuovo decreto Energia restringe ancora i margini, autorizzando vincoli e fasce di rispetto che appaiono più come freni che come regole. Le Regioni oscillano tra ricorsi e richieste di chiarezza. Gli operatori attendono norme definitive per investire e nell’attesa rinviano.

Sullo sfondo ci sono i numeri del fabbisogno: per arrivare agli 80 GW di rinnovabili al 2030, l’Italia avrebbe dovuto essere oggi ben oltre il trenta per cento del percorso. Invece è ferma poco sotto il 29%. Dodici Regioni sono al di sotto della media nazionale; due non superano il quindici per cento. È una geografia disomogenea che rivela il peso dei conflitti tra governo centrale e territori, con una pianificazione che cambia di continuo e non permette programmazione né fiducia.

I nodi politici e le scelte mancate

Nel mezzo della transizione il governo ha alimentato una narrativa ambivalente: l’elogio pubblico delle rinnovabili accompagnato dalla difesa del gas e dal rilancio del nucleare. Una prospettiva che non ha portato maggiore chiarezza. Il decreto Agricoltura ha vietato il fotovoltaico a terra su gran parte dei suoli agricoli, senza distinguere tra aree produttive e terreni marginali. L’effetto è tangibile nelle procedure autorizzative, più complicate proprio mentre la domanda cresce.

Il taglio delle risorse del PNRR per le comunità energetiche – da 2,2 miliardi a poco meno di 800 milioni – ha fatto il resto. Nel momento in cui enti locali, scuole, famiglie e imprese presentavano richieste per oltre 1,4 miliardi, il governo ha ridotto i fondi. Il risultato è una fotografia chiara: dei 5 GW incentivabili entro il 2027 ne sono attivi poco più di 100 MW. Le comunità energetiche, che avrebbero potuto ridurre le bollette e rafforzare il tessuto sociale, procedono in un labirinto di norme e risorse insufficienti.

Sul piano amministrativo i segnali non sono migliori. Gli uffici regionali per le autorizzazioni sono sotto organico, la Commissione PNRR-PNIEC procede a velocità ridotta, i tempi di connessione alla rete restano lunghi. Nel complesso i processi sono talmente farraginosi da vanificare la crescita tecnologica: il fotovoltaico produce di più, gli accumuli aumentano, ma la rete non è pronta a integrare ciò che il Paese sarebbe già in grado di installare. A questo si aggiunge un ulteriore paradosso: mentre gli impianti domestici rallentano, le grandi aziende energetiche spostano investimenti all’estero, dove i quadri normativi sono più stabili.

Il rallentamento del 2025 è quindi un fatto politico prima ancora che tecnico. Dopo due anni di espansione, la traiettoria si appiattisce mentre l’Europa chiede di accelerare. La dipendenza dal gas resta elevata, i rischi di mancato raggiungimento degli obiettivi 2030 diventano concreti, e la filiera industriale che negli ultimi anni aveva ricominciato a crescere ora teme un nuovo stop.

In questa contraddizione vive la transizione italiana: un Paese che potrebbe correre ma sceglie un passo più lento, intrappolato tra vincoli che produce e obiettivi che continua a proclamare.