L’università italiana continua a produrre pochi laureati nelle discipline scientifico-tecnologiche: i dati Eurostat elaborati da Lorenzo Ruffino mostrano che solo il 24 per cento degli studenti frequenta corsi STEM, contro il 27 per cento della media europea. È un indicatore che si innesta su un sistema già fragile: secondo Istat, nel 2022 si sono laureati in STEM soltanto 18 giovani ogni mille tra i 20 e i 29 anni, mentre l’Education and Training Monitor 2025 della Commissione europea colloca la media Ue a 23 ogni mille.
La debolezza del segmento tecnico coincide con un rallentamento strutturale: tra il 2003 e il 2023 la produttività italiana è cresciuta appena del 2,5 per cento, molto meno dei principali paesi europei.
Troppi umanisti, pochi tecnici
L’altra metà della fotografia riguarda la distribuzione interna dei percorsi. L’Italia è prima in Europa per incidenza di studenti nelle scienze sociali e umanistiche, con il 31 per cento degli iscritti. Non è un problema in sé: il nodo è l’asimmetria con la parte tecnico-scientifica, che resta minoritaria proprio mentre il mercato del lavoro richiede competenze avanzate.
Gli esiti occupazionali lo dimostrano con chiarezza. Secondo AlmaLaurea, a cinque anni dal titolo un informatico guadagna 2.220 euro netti, un ingegnere 2.177, cioè fino al 20 per cento in più della media nazionale. In un sistema coerente questo differenziale stimolerebbe nuove iscrizioni nei settori più richiesti; in Italia accade il contrario.
Nord e Sud, uomini e donne: il divario nascosto
Le statistiche territoriali aggiungono un ulteriore livello di lettura. I laureati STEM sono più presenti nel Nord, dove l’apparato produttivo è più dinamico, mentre il Mezzogiorno continua a esprimere valori più bassi e una dispersione scolastica più alta. È un circolo vizioso: meno formazione, meno occupazione qualificata, meno investimenti.
A questo si somma il divario di genere. Istat rileva che solo 14 ragazze ogni mille completano un percorso universitario STEM, contro i 21 ragazzi ogni mille. Nel settore ICT la Commissione europea registra che le donne rappresentano meno del 16 per cento delle iscrizioni, ben al di sotto della media Ue. Le conseguenze si vedono anche nella forza lavoro: la quota di scienziate e ingegnere in Italia resta tra le più basse dell’Unione.
Le imprese cercano ciò che l’università non produce
Sul piano economico, la carenza di laureati tecnici è evidente. L’Ufficio studi dei Consulenti del lavoro stima che ogni anno manchino circa 8.700 laureati nei campi scientifici, un deficit che si aggiunge ai 133.000 diplomati tecnici assenti nei percorsi professionalizzanti. Le imprese lamentano l’impossibilità di trovare figure adeguate: secondo le indagini sulle competenze digitali, il 44 per cento delle aziende fatica a reclutare profili specializzati.
Il ritardo nelle competenze pesa anche sulla trasformazione tecnologica. Istat calcola che solo il 45,8 per cento della popolazione adulta possiede competenze digitali di base, dieci punti sotto la media europea. E mentre il sistema formativo rallenta, cresce il numero dei giovani qualificati che scelgono l’estero: secondo le analisi demografiche più recenti oltre 21.000 laureati tra i 25 e i 34 anni hanno lasciato il paese nel 2023.
Una strategia che manca
Da questa mappa emerge un tratto ricorrente: l’Italia continua a formare molti laureati dove l’assorbimento è debole e pochi dove sarebbe cruciale. Il risultato è uno squilibrio che attraversa università, mercato del lavoro e produttività.
Non serve ridurre gli umanisti: serve costruire un’offerta capace di sostenere la domanda reale. Finché il paese delega alle scelte individuali un problema sistemico, continuerà a rincorrere la modernizzazione senza disporre delle competenze necessarie per realizzarla.