In 129 pagine di denso lessico giuridico, la Corte di Cassazione ha compiuto un gesto rarissimo: mettere in discussione la legittimità costituzionale di un intero decreto-legge appena varato. Il documento – la relazione 33/2025 dell’Ufficio del Massimario – non è vincolante, ma è il termometro autorevole della legalità repubblicana. E il verdetto è netto: il decreto sicurezza voluto dal governo Meloni è viziato nel metodo e nel merito, e rischia di essere incostituzionale. Il parere, come detto, non vincolante è tuttavia giuridicamente è pesantissimo. Non lo dice l’opposizione. Lo dice la Suprema Corte, il massimo organo della giurisdizione della repubblica.
Un decreto senza urgenza
Il primo colpo riguarda la forma. La Cassazione contesta che sussistessero i presupposti costituzionali per procedere con decreto-legge: nessuna necessità, nessuna urgenza. Anzi, il testo approvato – scrivono i giudici – “ricalca ampiamente un disegno di legge già in discussione”, e l’accelerazione è servita solo a “evitare dilazioni al Senato”. Una motivazione inaccettabile, secondo la Corte costituzionale, che ha sempre ribadito: l’urgenza non si dichiara, si dimostra.
Inoltre il decreto è eterogeneo: una sequenza di norme che vanno dal carcere per chi protesta al licenziamento dei familiari di mafiosi, dalla disciplina sulle detenute madri fino ai Daspo urbani e alle norme sui servizi segreti. Uno “zibaldone normativo”, scrive il Massimario, che cozza con i criteri di omogeneità richiesti dall’articolo 77 della Costituzione.
Nel merito: trentatré profili di incostituzionalità
Ma è il contenuto il vero campo minato. La Cassazione individua almeno 33 punti problematici. Tra i più gravi: l’estensione dell’impunità per gli agenti dei servizi segreti, anche quando promuovano gruppi eversivi o terroristici “a fini investigativi”. Un potere che scavalca ogni controllo democratico.
Poi c’è il reato di “terrorismo della parola”: punibile diventa anche il semplice possesso di “materiale propedeutico”, senza che sia chiarito cosa significhi. Una norma che sposta la soglia della punibilità prima dell’azione, prima dell’intenzione, prima del contesto.
Altre norme colpiscono chi manifesta. Le aggravanti per “luogo e contesto” – scioperare in stazione o in metropolitana può costare anni di carcere – non hanno nulla a che fare con la sicurezza, e tutto con il controllo sociale. Anche i nuovi reati di “rivolta carceraria” e “resistenza passiva” nei Cpr servono più a criminalizzare la disperazione che a tutelare l’ordine.
Particolarmente gravi, secondo i giudici, sono le norme che colpiscono le detenute madri, giustificate con la dottrina del “diritto penale d’autore”: punire non la condotta, ma l’identità. Sei povera, sei straniera, sei madre? Sei pericolosa.
Infine, le misure antimafia: si depotenziano le interdittive, si introduce la possibilità per il prefetto di sospenderle in nome del “sostentamento del nucleo familiare”. E si prevede il licenziamento in tronco per chi abbia parentele con mafiosi condannati: colpevolezza per legami di sangue, come nel codice penale borbonico.
Silenzio di Palazzo, allarme delle opposizioni
Il governo, per ora, fa finta di nulla. Nessuna dichiarazione da parte di Giorgia Meloni, né del ministro dell’Interno Piantedosi. La premier si limita a ribadire, da altri palchi, che “il governo non arretra di fronte a chi semina paura”. Ma la paura viene ora da una legge – a scorrere i rilievi della Cassazione – scritta male, pensata peggio e applicata a danno dei diritti fondamentali.
Più netta la posizione dell’opposizione. Angelo Bonelli (AVS) parla di “una legge autoritaria che trasforma il dissenso in reato e il disagio in delitto”. Laura Boldrini denuncia una “deriva securitaria che colpisce i più deboli: detenute madri, operai, studenti”. Giuseppe Conte (M5S) invoca un intervento urgente della Corte costituzionale: “Questo decreto è l’anticamera dello Stato penale del sospetto”.
Anche Amnesty International interviene: “Il decreto sicurezza introduce nuove forme di repressione legale del dissenso e limita il diritto alla protesta. Le norme sono sproporzionate e si pongono in contrasto con gli obblighi internazionali dell’Italia in materia di diritti umani”.
Una legge già in vigore
La relazione della Cassazione non è una sentenza. Ma pesa. Pesa nei tribunali, nella giurisprudenza, nel dibattito parlamentare. E soprattutto pesa sulle vite delle persone che già oggi stanno subendo l’applicazione di queste norme: operai denunciati per sciopero, manifestanti processati per occupazione, migranti criminalizzati nei Cpr, madri incarcerate in condizioni aggravate per il solo fatto di esserlo.
Intanto il decreto è legge dello Stato. Resta in vigore. E chi lo contesta deve farlo nelle aule, nelle strade, nei ricorsi. Il diritto, in questa fase, è un campo di battaglia. E la giustizia – quella vera – si gioca nella distanza tra legalità formale e diritti sostanziali.
Perché quando una legge punisce chi protesta, premia chi reprime e protegge solo chi comanda, non è più una legge: è un’arma.