La Corte costituzionale salva le pensioni d’oro. E per gli ex magistrati, generali, manager e notai la pacchia continua

di Giuseppe Cantore

Le Pensioni d’oro non si possono toccare. Il ticket, cioè il prelievo straordinario sulle pensioni oltre i 90 e i 150 mila euro è incostituzionale. La Consulta, con una sentenza depositata ieri, ha di fatto cancellato i tagli su tutte le pensioni, anche quelle più ricche, introdotti nell’estate 2011 dal governo Berlusconi e poi confermati dal governo Monti.
Salvati, quindi, gli ex magistrati, avvocati dello Stato, ambasciatori, generali, dirigenti pubblici, manager pubblici e privati e notai. La norma censurata disponeva che, dal primo agosto 2011 fino al 31 dicembre 2014, i trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, i cui importi superassero 90mila euro lordi annui, fossero assoggettati a un contributo di perequazione del 5% della parte eccedente l’ importo fino a 150 mila euro; pari al 10% per la parte eccedente 150mila euro; e al 15% per la parte eccedente 200 mila euro. La Consulta ha giudicato questa norma in contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione, rispettivamente sul principio di uguaglianza e sul sistema tributario.
“Al fine di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria – si legge nella sentenza n.116 depositata oggi – il legislatore ha imposto ai soli titolari di trattamenti pensionistici, per la medesima finalità, l’ ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura, attraverso una ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi”.
La giurisprudenza della Corte, si ricorda nella sentenza, “ha ritenuto che il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita”.
“E’ chiaro che il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta con più evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro”.