La diaspora di una Terra ancora Promessa. Il viaggio senza fine di Frida con le sorelle. Volti e storie di un ebraismo poco noto

Frida è l’ultima di tre sorelle. Parla da una confortevole casa di riposo di Tel Aviv. C’è silenzio nell’aria. Quel silenzio proprio di chi ha vissuto drammi inenarrabili. Quelli di Frida, però, sono diversi: lei non arriva dall’Europa. Il suo viaggio è molto più lungo. Unione Sovietica, Uzbekistan, Italia, infine Palestina. Scherza, Frida. Le piace parlare e chiacchierare. E raccontare il suo incredibile peregrinare che, anche quando pare concluso, non lo è mai fino in fondo. La sensazione di un cercare senza fine, necessario per tentare di rispondere a una solitudine a tratti metafisica, è presente in tutte le oltre 400 pagine de Il pane del Ritorno, il romanzo di una splendida Franca Cancogni, edito da Bompiani.

Classe 1920 e una giovinezza innata e immortale che emerge prepotente dalla sua penna, Franca è la sorella di Manlio: insieme firmarono nel 1978 il fortunato romanzo Adua. Ha lavorato come sceneggiatrice e firmato decine di traduzioni, tra cui Joyce, Lawrence e Conrad. Autori che vivono nel libro di Franca. Respirano, si muovono, parlano con Frida. In un’intervista è stata la stessa autrice a riconoscere una commistione nella quale diventa difficile, se non impossibile, scindere il reale dal verosimile, la storia dal romanzato. “Mia nuora, che è ebrea, mi ha raccontato la storia della sua famiglia e mi ha chiesto di scriverla. Siccome non ho avuto modo di conoscere i suoi genitori, le ho spiegato che avrei lavorato di fantasia. E così è nata Frida, una trovatella che viene adottata da un ricco mercante ebreo in Uzbekistan, un personaggio che ho preso in qualche modo da Checov. Si tratta di una figura quasi magica, che permette a Frida di entrare nei segreti di una famiglia.

E poi c’è la diaspora vera e propria di Frida, che la porta anche in Palestina nei giorni dell’assedio di Gerusalemme”, racconta Cancogni. Il racconto di Frida è una diaspora continua. Che non conosce pace. Nel tempo e nello spazio. Un vortice in cui si alternano ricordi, presente, viaggi, emozioni, nomi e volti di una storia della quale si ha subito l’impressione, nitida, non ha e non può avere termine. Il romanzo è in prima persona, la voce narrante di questa anziana donna sta al centro della storia, che però è sempre attorniata da una folla di parenti, famiglie acquisite, popoli di passaggio. Sonia e sua sorella, due ragazze senza infanzia, approdano a Bukhara, Uzbekistan. Trovano ristoro a casa del ricco mercante Asherov, dove Sonia si ritrova in una condizione fra la servetta e la figlia. Ma la situazione diventa presto critica per gli ebrei. Da lì parte un nuovo viaggio. O una fuga, più correttamente, che la porterà in India e in Afghanistan e in Iran: a diciannove anni Frida sposa Daniel, uno dei figli del ricco uzbeko, non perché lo ami ma perché sua sorella ne ha sposato un altro e questo è il modo più semplice per restare unite. Daniel si appassiona al sionismo e riesce nell’intento di trasferirsi in Palestina; intanto Frida ha una serie di gravidanze, fa amicizia con le donne arabe di un villaggio poi raso al suolo, subisce i continui spostamenti. Fino alla casa di riposo. Da cui scrive il memoriale. Per ricercare un approdo che non è mai casa.