La grande bufala dello spread

di Gaetano Pedullà

Ora tutti giurano di averlo detto in tempi non sospetti. O perlomeno di averlo pensato. Quella dello spread è stata una delle più grandi balle spaziali mai intortataci dal sistema finanziario per giustificare le speculazioni più ardite e soprattutto il sovvertimento dei sistemi democratici, ormai governati più dai mercati che dai popoli sovrani. Premesso – per quei tantissimi che non lo sanno e vivono bene lo stesso – che per spread intendiamo il differenziale di rendimento tra titoli di debito pubblico, nel nostro caso riferito ai buoni del tesoro italiani e a quelli tedeschi, la pistola fumante del grande imbroglio ce l’abbiamo in queste settimane proprio in Italia, Paese che sull’altare dello spread ha sacrificato immense risorse finanziarie, i sacrifici di un popolo laborioso, e persino la caduta di un governo che aveva vinto le elezioni (Berlusconi) per far spazio prima a Monti e poi a Letta. Governi che nel primo caso non avevano neppure uno straccio di legittimazione elettorale e nel secondo – per dirla con Bersani – non hanno perso, ma neppure vinto nelle urne. Lo spread, ci hanno insegnato, dovrebbe salire (facendo pagare di più gli interessi sul debito) quando l’economia che sostiene quel debito è debole, mentre dovrebbe scendere quando l’economia stagna o peggiora. Bene, in questa Italia con il record storico di debito pubblico, con il record altrettanto storico di disoccupati, con uno dei più bassi indici nei consumi, con il sistema del credito al collasso e una tassazione insostenibile, lo spread scende. Quando in passato le cose erano messe perlomeno un po’ meglio, lo stesso spread invece volava. La fiducia dei mercati, può rispondere l’ingenuo, anticipa il trend e dunque se lo spread scende vuol dire che la comunità finanziaria si aspetta che il peggio sia passato e da domani l’economia ripartirà. Un po’ quello che dice il governo. Ma se nessuno lavora, migliaia di imprese non riapriranno dopo le vacanze, di soldi non ce n’è più, come parte questa ripresa? All’ingenuo di prima l’ardua risposta.