La lealtà a Renzi non ha pagato. Il grande sconfitto del governo Gentiloni è Verdini

Il grande sconfitto del Governo Gentiloni è senza dubbio Denis Verdini, il fondatore e leader di Ala, che da tempo lavorava sottotraccia per Renzi.

Mesi e mesi a fare da stampella a Renzi, a sostenere la riforma costituzionale, e a spendersi per l’amico Matteo in ogni angolo spiegando che l’attivismo in favore del Rottamatore avrebbe pagato. Salvo poi ritrovarsi con un pugno di mosche in mano. Senza nemmeno un ministero e trattato come un partitino qualunque. Il grande sconfitto del Governo Gentiloni è senza dubbio Denis Verdini, il fondatore e leader di Alleanza liberalpopolare-Autonomie (Ala), che da tempo lavorava sottotraccia per arruolare parlamentari tra le sue truppe. Eppure l’ex plenipotenziario berlusconiano si era seduto al tavolo della trattativa con la forza di un drappello di senatori molto pesanti: 18 voti utili a puntellare una maggioranza che a Palazzo Madama ora rischia di sudare sette camicie sui provvedimenti più delicati. Pallottoliere alla mano, i numeri ci sono. Ma sono tanto esili da ricordare l’esperienza di Romano Prodi, costretto a far ricorso ai senatori a vita.

Salute – La richiesta di Verdini non era di certo sorprendente: voleva un posto nell’esecutivo, nella casella del ministero della Salute, spendendo magari il nome di un tecnico gradito. Sarebbe bastato estromettere Beatrice Lorenzin del Nuovo centrodestra – che aveva altri due ministri, Angelino Alfano, dirottato dal Viminale alla Farnesina, ed Enrico Costa, confermato agli Affari regionali – per trovare un posto a un verdiniano. Invece, non c’è stato niente da fare: Gentiloni ha preferito lasciare intatti gli equilibri nella maggioranza, pur essendo consapevole di perdere l’Ala.

Trattativa – Il tentativo di mediazione è arrivato sulla poltrona di ministro delle Politiche agricole. Il presidente del Consiglio era disposto a dare a Enrico Zanetti, viceministro dell’Economia nel governo Renzi, l’incarico finora occupato da Maurizio Martina. Ma a Verdini non interessava. L’obiettivo era quello di gestire una macchina importante come quella della sanità, molto cara anche all’amico Antonio Angelucci, deputato di Forza Italia, e in ottimi rapporti con il fondatore di Ala. Ma da Palazzo Chigi non c’è stato alcun segnale in tal senso. E così è nato “un governo fotocopia, senza alcun approfondimento sulle questioni in campo”, hanno messo nero su bianco Verdini e Zanetti. Con questo ragionamento, quindi, è stato ufficializzato il no alla fiducia a Gentiloni. Ed è probabilmente un rischio calcolato dai vertici del Partito democratico, che hanno svolto un ruolo fondamentale nella formazione della squadra di Governo. Tanto per cominciare è stato sottratto un argomento di propaganda al Movimento 5 Stelle, che con il Luigi Di Maio già aveva attaccato: “Il Pd è ricattato da un prescritto per corruzione”. E poi è stata garantita la debolezza del nuovo premier: in questo modo la spina alla legislatura può essere staccata il prima possibile. E per l’ennesima volta, la pedina-Verdini risulta utile a Renzi.