La lenta ritirata sul Recovery fund

Media ed economisti non credono più al Recovery fund. Zero critiche a chi è incapace di usare i fondi europei.

La lenta ritirata sul Recovery fund

Era il luglio del 2020 quando i leader europei avevano raggiunto un accordo sul Recovery fund, al termine di un negoziato record durato quattro giorni e quattro notti. Un bazooka con una dotazione di 750 miliardi di euro, di cui 390 miliardi di sussidi e 360 di prestiti.

Media ed economisti non credono più al Recovery fund. Zero critiche a chi è incapace di usare i fondi europei

“Siamo soddisfatti: abbiamo approvato un piano di rilancio ambizioso e adeguato alla crisi che stiamo vivendo”, dichiarò il premier Giuseppe Conte in conferenza stampa al termine del Consiglio europeo nel pieno dell’emergenza pandemica. La nuova composizione del Recovery fund avrebbe portato in dote all’Italia 209 miliardi, di cui 82 di sussidi e 127 di prestiti. Nel day after dell’intesa di Bruxelles l’allora presidente del consiglio in un’informativa dai toni entusiasti relazionò in Parlamento gli esiti del Consiglio europeo.

Persino Meloni e Renzi riconobbero a Conte il successo dei 209 miliardi. Che ora si perdono

Tra gli interventi successivi a quelli del premier era particolarmente atteso quello di Matteo Renzi, fino ad allora ferocemente critico verso l’attuale leader pentastellato. E invece, quella volta, il leader di Italia viva cambiò registro: “L’Europa ha fatto bene a differenza del 2012, ma lei è stato bravo e noi gliene diamo atto e se questa è la strada noi saremo al suo fianco e di chi sceglierà sempre l’Europa”. Pur con i dovuti distinguo anche l’attuale premier, Giorgia Meloni, ammise che l’Italia era uscita “in piedi”, riconoscendo a Conte “di essersi battuto”.

Insomma da parte di tutti c’era il riconoscimento che il Pnrr sarebbe stata un’occasione formidabile per fare le riforme e modernizzare il Paese. Ora, però, da occasione irripetibile il Piano nazionale di ripresa e resilienza diventa un oggetto diffidente e misterioso. Conte lo aveva profetizzato: “Mi accuseranno persino di aver ottenuto troppi soldi”. È quanto ha fatto ieri il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso: “Quello che è stato fatto in questo Paese lo conoscono tutti: quando furono chieste il massimo delle risorse a debito, quando furono presentati i progetti in pochi giorni, uno accatastato all’altro. Alcuni sono già stati bocciati, pensiamo agli stadi”.

Urso continua così lo scaricabarile ad opera delle destre che sin da prima che il nuovo governo si insediasse è cominciato sul Pnrr. E oggi che non sappiamo spendere quei soldi, il Recovery plan ha perso l’aura dell’occasione irripetibile ed è diventato un terreno insidioso anche per gli economisti che si inginocchiano davanti ai politici incapaci, e invece di denunciarne l’incompetenza, per servilismo, cominciano a dire che, forse, è meglio rinunciare ai fondi o almeno a una parte di questi. Sposano cioè la linea di Raffaele Fitto che ha ipotizzato una mannaia sulle grandi opere infrastrutturali, ipotizzandone un taglio del 30 per cento.

E fa certo sorridere Matteo Salvini che, pur di contraddire Meloni e Fratelli d’Italia, dice non solo che “l’obiettivo per quel che riguarda me e il governo è spendere bene e spendere tutti i fondi del Pnrr” ma che “se qualche altro ministro non riuscisse a spendere tutto quello che è previsto, noi come Infrastrutture possiamo spendere qualche miliardo in più”. Eppure proprio la Lega ha aperto le danze del gran ballo della rinuncia ai soldi del Pnrr. Il senatore leghista Claudio Borghi ha dichiarato poco tempo fa quanto segue: “Ma quelli che si esaltano per gli ultimatum per avere le rate del Pnrr hanno capito che sono soldi a prestito che paghiamo sempre noi e subordinati a minuziose ‘riforme’ decise e approvate da altri, spesso contro il nostro interesse e che noi dobbiamo solo sbrigarci ad attuare?”.

Ebbene questa teoria al momento, seppur in maniera subdola, nutre il pensiero di politici ed economisti che si avvicinano al Pnrr. E questo solo a causa di una classe politica dirigente incapace di spendere quei 200 miliardi di euro che Conte con gran fatica riuscì ad assicurare all’Italia. E, a dirla tutta , questa linea del rinunciare ai fondi trova già molte sponde non solo in politici di destra, sui giornali di riferimento diretto o più velato del governo, ma persino in parte dell’opposizione che non vuole inimicarsi Mario Draghi, eterna carta di riserva per il futuro.

Emblematico anche l’atteggiamento degli industriali che da entusiasta è diventato canzonatorio. “I soldi del Pnrr hanno un obiettivo, creare Pil. Quindi, se devo indebitarmi per la crescita del Paese ha un senso, ma se devo indebitare i miei figli per quattro rotonde in più bisogna aprire una riflessione”, ha detto il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. Gli industriali si sa, battono continuamente cassa dunque se riescono a mettere le mani su quella torta bene, altrimenti ciccia.

“Il Pnrr è un’opportunità e un banco di prova per il nostro Paese. Ma è inutile e, anzi, autolesionista insistere su progetti irrealizzabili senza valore aggiunto. Abbiamo su questo fatto delle proposte al governo che, in questo momento, è impegnato nella trattativa con l’Europa. Abbiamo, tra le altre cose, suggerito di destinare una parte delle risorse che rimarrebbero scoperte verso incentivi agli investimenti per le imprese, che sono più rapidi da attuare e sono diretti e tangibili”, ha detto senza lasciar spazio ad equivoci Bonomi.

Dai messaggi neanche troppo velati degli industriali ai dubbi degli economisti, dicevamo, che ora vanno blaterando di troppe condizionalità imposte dall’Europa col Piano. E se per condizionalità si intendono le riforme e la necessità di modernizzare il Paese, sì in effetti il Pnrr contiene troppe condizionalità. “L’atteggiamento del governo sul Pnrr è incomprensibile, riconoscono di fatto che ormai c’è un ritardo. Rischiamo di perdere i soldi”, è l’allarme lanciato da Conte. Riferendosi al governo, l’ex premier ha spiegato che “non sono disponibili a sedersi attorno a un tavolo per trovare insieme soluzioni. Si stanno assumendo una grande responsabilità, perché di questo verranno chiamati a rispondere davanti all’intera comunità nazionale”.

Eppure sarà difficile per questo governo risponderne davanti al Paese se tutto l’apparato dei media continuerà con quest’opera certosina di demolizione del Recovery plan. Se, e quando, quest’opera sarà compiuta quegli applausi partiti anche dai banchi dell’opposizione verso Conte, nel luglio di quasi tre anni fa, potrebbero diventare ormai un lontano e sbiadito ricordo.

 

Leggi anche: Alta tensione sul Pnrr. La terza rata non si sblocca. Il Governo Meloni sta buttando via i miliardi ottenuti da Conte