La manovra alla prova del Parlamento imbavagliato, ma intanto Meloni decide tutto da sola

Sulla manovra non si discute, decide tutto Giorgia Meloni. Intanto il testo arriva al Senato, ma per il Parlamento è previsto il bavaglio.

La manovra alla prova del Parlamento imbavagliato, ma intanto Meloni decide tutto da sola

Pochi ritocchi e una certezza: il Parlamento viene completamente esautorato. Il vertice della maggioranza sulla manovra ha portato a trovare un accordo tra tutte le forze che compongono il governo guidato da Giorgia Meloni, ma senza grosse modifiche ai provvedimenti in discussione. In compenso una garanzia c’è: in Parlamento la maggioranza non toccherà palla.

Se ci fossero stati ancora dei dubbi sul completo scavalcamento di ogni prerogativa parlamentare, oggi ci ha pensato Palazzo Chigi a spazzarli via con una nota nella quale si sottolinea la “volontà di procedere speditamente all’approvazione della legge di Bilancio, senza pertanto presentare emendamenti”.

Bavaglio al Parlamento: nessun emendamento della maggioranza sulla manovra

La maggioranza si attiene a quanto decide il governo. Il ruolo dei parlamentari di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si riduce a quello di semplici passacarte. Nonostante una promessa che suona quasi come una beffa, con il governo che assicura che “terrà conto con grande attenzione del dibattito parlamentare e delle considerazioni delle forze di maggioranza e opposizione”.

Anche se sfugge in quale modo possa avvenire, considerando l’esplicita richiesta – anzi imposizione – di non presentare emendamenti. In sostanza, il Parlamento non avrà alcun ruolo significativo nella discussione della legge di Bilancio. Anche perché viene davvero difficile pensare che le opposizioni avranno spazio – salvo voti a sorpresa e qualche parlamentare di maggioranza che non rispetti gli ordini di scuderia – per incidere.

Un incidente non è impossibile, considerando il margine ristretto in commissione: i voti della maggioranza di centrodestra sono 12 contro i 10 delle opposizioni. Molto più ampio in Aula, con i 115 seggi a sostegno del governo. In attesa del testo definitivo della manovra, la commissione Bilancio del Senato era già stata convocata per oggi alle 13.30.

L’iter della manovra basata su “serietà e solidità dei conti pubblici”, la formula usata da Palazzo Chigi per dire in maniera più elegante che si tratta di austerità, è pronto a partire. I nodi nella maggioranza, dopo le proteste di Forza Italia, sono stati sciolti nella riunione di ieri mattina.

Resta il favore agli albergatori: cedolare secca al 26% sugli affitti brevi

Il punto più controverso, quello su cui era salita la tensione tra Forza Italia e la presidente del Consiglio, riguardava le tasse sulla casa. E, nello specifico, l’aumento della cedolare secca sugli affitti brevi.

Gli azzurri hanno ottenuto l’introduzione del codice identificativo nazionale che, a giudizio del vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani, servirà a far emergere il sommerso. Il codice verrà introdotto con il decreto Anticipi e servirà per ridurre il ricorso al nero “di coloro che affittano appartamenti”.

Non solo, perché permetterà – secondo i calcoli del Mef guidato da Giancarlo Giorgetti – di avere “più soldi nelle casse” dello Stato. L’aumento della tassa sugli affitti brevi, però, resta, contrariamente a quanto sperava Forza Italia, che voleva portare a casa la sua battaglia storica sulla detassazione degli immobili.

Viene confermato in manovra l’innalzamento dell’aliquota dal 21% al 26% per la cedolare secca sugli affitti dalla seconda alla quarta casa fino a 30 giorni, che suona come un favore agli albergatori. Per la prima casa resta invece al 21%. Il gettito derivante da questo aumento, secondo l’accordo trovato nella maggioranza, verrà destinato alla riduzione delle tasse sugli immobili. Che intanto, però, aumentano, con una possibile stangata per chi affitta la seconda casa che rischia di arrivare fino a 850 euro medi l’anno, secondo le stime Aigab, l’Associazione italiana gestori affitti brevi.

I nodi da sciogliere in manovra: dal canone Rai alle pensioni

Altro punto su cui la maggioranza si è spaccata è quello riguardante il taglio del canone Rai, da 90 a 70 euro. Tema su cui non è stata trovata una soluzione nella riunione di ieri, rinviando ogni decisione a un secondo tavolo, dopo un approfondimento del dossier che riguarderà soprattutto la capacità di reperimento delle risorse per compensare il taglio.

Ci sarà un confronto anche tra Palazzo Chigi e i vertici della stessa Rai, prima di prendere una decisione. Le perplessità di Forza Italia riguardavano poi le pensioni, soprattutto gli aggiustamenti ai danni dei dipendenti pubblici che sono state introdotte insieme al ritorno della Quota 103, tanto voluta (nonostante il suo ridimensionamento) dalla Lega di Matteo Salvini.

Per tornare alla misura che nel 2023 si è già dimostrata fallimentare, con pochissime adesioni, il governo ha deciso di ricorrere a un taglio dei rendimenti della parte retributiva delle future pensioni di chi ha iniziato a lavorare prima del 1996.

La norma riguarda gli iscritti alla Cassa per le pensioni dei dipendenti degli enti locali (Cpdel), alla Cassa per le pensioni dei sanitari (Cps) e alla Cassa per le pensioni agli insegnanti di asilo e di scuole elementari parificate (Cpi). Una misura che ha provocato la rivolta dei sindacati medici, che secondo le organizzazioni sarebbero la categoria più colpita.

Anche perché il rischio è quello di un esodo prima della fine dell’anno dei professionisti del Servizio sanitario nazionale, per evitare un taglio agli assegni in caso di pensionamento nel 2024. I sindacati del settore si dicono pronti allo sciopero entro dicembre, criticando il governo che “punta a fare cassa sulle pensioni dei medici e dei dirigenti sanitari”.

La riduzione, “stimabile tra il 5% e il 25% dell’assegno pensionistico annuale”, colpisce quasi il 50% del personale attualmente in servizio. Per il momento, comunque, anche su questo punto Tajani ha dovuto di fatto cedere a Meloni. Come sulla cedolare secca (in cambio di un contentino) e su tutto il resto. Esattamente come ha fatto anche Salvini qualche giorno fa. Insomma, c’è una donna sola al comando, a Chigi.