La manovra è legge, ma non regge. Meno male che si doveva tagliare. Arrivano 2,1 miliardi di tasse in più

di Vittorio Pezzuto

Anche stavolta è stato seguito il solito, stracco copione. Perché tutto si può scrivere ma non che la legge di Stabilità non sia la rappresentazione vivida di un regime al tramonto, che cerca di sopravvivere alla sua incapacità strutturale di autoriforma. Tutto è iniziato più di due mesi or sono quando il premier Letta e il ministro dell’Economia Saccomanni, travestiti da improbabili pifferai magici, hanno annunciato un testo rivoluzionario a base di tagli alla spesa e contemporanea riduzione delle tasse. Con tutti i giornali del giorno dopo che illustravano provvedimenti mirabolanti che nessuno avrebbe visto in forma scritta se non una decina di giorni dopo. Quanto alle coperture necessarie per le diverse misure economiche, ecco che è subito iniziato il solito balletto di cifre fatto di annunci, retroscena e smentite. E mentre nuove paginate dettagliate sui futuri provvedimenti andavano a sostituirsi alle precedenti, nell’italiano medio è subentrato il disgusto per una classe politica treccartara che fa della confusione lo strumento preferito per poter meglio infierire sul contribuente con la politica di sempre: tassa e spendi. Nel frattempo senatori e deputati lavoravano alla presentazione di centinaia di emendamenti (spesso dettati da interessi localistici e corporativi) nell’illusione di una loro utilità, fingendo di non sapere che da sempre l’ammuina parlamentare si risolve in un bel maxi-emendamento dell’ultima ora, condito con la draconiana richiesta del voto di fiducia al governo. È successo in prima lettura al Senato (che aveva fretta di chiudere la pratica per poter subito dopo espellere Berlusconi da palazzo Madama), è successo alla Camera, si è ripetuto ieri di nuovo al Senato in onore al bizantino principio costituzionale del bicameralismo perfetto (che impone che il testo approvato sia identico in entrambe le Camere): 158 voti a favore, un contrario e un astenuto.

Ennesima occasione mancata
Risultato finale? La manovra – che vale 14,7 miliardi nel 2014 (di cui 12,2 miliardi sono coperti con le misure contenute nel provvedimento, mentre circa 2,5 miliardi sono risorse che andranno a deficit) è fortemente sbilanciata sulle entrate: l’anno prossimo il 67% delle coperture arriva da maggiori entrate, che scenderanno al 59% nel 2015 e nel 2016. Il prelievo fiscale e contributivo aumenta così di 2,1 miliardi nel 2014, di circa 600 milioni nel 2015 e di 1,9 miliardi nel 2016. Non male, per Angelino Alfano e i suoi sodali del Nuovo centrodetra, trasformati da sentinelle antitasse in ascari del Pd.
Il tutto deciso nell’abituale contesto di mediazioni al ribasso e scandali: lo scatenarsi di lobby agguerrite che in alcuni casi vengono smascherate sul filo di lana (è successo quest’anno sul gioco d’azzardo) ma che quasi sempre portano a casa il risultato grazie alla fattiva collaborazione dei dirgenti ministeriali; un Paese che anche quest’anno non coglie l’occasione della crisi per cambiare radicalmente i meccanismi della spesa e farsi così trovare pronto a cogliere i primi refoli della ripresa; cittadini disorientati che fino all’ultimo non capiscono quanto dovranno versare allo Stato (le minori entrate derivanti dall’abolizione nominalistica dell’Imu, pari a 3,76 miliardi, verranno compensate dalle maggiori entrate derivanti dall’introduzione della Tasi)e quindi si guardano bene dall’impegnare la tredicesima, così contribuendo a un’ulteriore calo dei consumi interni.
Nel frattempo il premier Letta, che in queste settimane ha perduto il sostegno di Forza Italia, continua a recitare il mantra della stabilità di governo come panacea degli italici mali e si ostina a usare il tempo futuro («Faremo», «diremo», «decideremo») in attesa di coronare il suo sogno: Renzi permettendo, diventare fra sei mesi il presidente di turno dell’Unione europea.

Critiche dal Pd
Dovrebbe invece fare attenzione alle voci sempre più scettiche che si levano dalla sua stessa maggioranza. Le senatrici del Pd Laura Cantini, Isabella De Monte e Nadia Ginetti ieri hanno avuto il merito di dire a voce alta quello che pensano in molti: «Abbiamo smesso di credere in Babbo Natale, ma un buon padre di famiglia deve avere più coraggio e le idee più chiare per sostenere il Paese ad uscire dalla crisi». Questa, hanno aggiunto «non è la finanziaria di cui il Paese ha bisogno: non c’è una visione unitaria ma tanti micro interventi, alcuni persino molto discutibili inseriti a caso nei tanti provvedimenti che hanno creato un vero e proprio ingorgo parlamentare. Una legge che aumenta il prelievo fiscale e contributivo e che si limita a cambiare il nome di alcune tasse, aumentandone peraltro il carico, come avviene con la Tasi, non è la medicina che serve al Paese». Toni duri gli sono arrivati anche da Scelta civica: il segretario politico Stefania Giannini ha infatti annunciato di voto di fiducia «per senso di responsabilità ma senza alcuna convinzione politica». Linda Lanzillotta e Benedetto della Vedova sono andati oltre, promettendo di valutare «il proprio ruolo» nella maggioranza qualora continui a mancare «il coraggio di aggredire la spesa pubblica» là dove serve per la crescita. Lo stesso ministro Lupi appare insoddisfatto: «Abbiamo lanciato il contratto 2014 come Ncd – ha detto – innanzitutto perché riteniamo che dal primo gennaio debbano iniziare 14 mesi di nuovo lavoro, in modo più coraggioso, con più forza, meno confusionario». Sì, avete letto bene: meno confusionario. E adesso vi chiedete perché il Paese affonda in una crisi dettata anche dall’incertezza, mentre nell’opinione pubblica montano rabbia e disgusto?