La Meloni tuonava contro le fiducie. Ma ne ha chieste più di tutti

Con il via libera alla Manovra il Governo Meloni ha incassato la sua quarta fiducia nel corso dei suoi primi 70 giorni.

Scroscianti applausi, poi cori e infine le immancabili battutine in romanesco. Questa la reazione tra l’euforico e il divertito da parte della maggioranza quando, il 21 dicembre scorso, il governo di Giorgia Meloni al Senato ha incassato la sua prima fiducia sul decreto Aiuti quater. Un copione che si è ripetuto due giorni dopo, seppur con minor euforia, quando alla Camera è stato chiesta – e ottenuta – la fiducia sulla legge di Bilancio.

Con il via libera alla Manovra il Governo Meloni ha incassato la sua quarta fiducia nel corso dei suoi primi 70 giorni

Poi ancora il 28 dicembre quando la fiducia è arrivata sul decreto Rave e, infine, ieri quando ha subito la stessa sorte la manovra a Palazzo Madama ma questa volta con gli applausi ridotti al lumicino. Del resto quando si ricorre tanto spesso a uno strumento che come ha sempre sostenuto Giorgia Meloni “mortifica il Parlamento”, è piuttosto normale che deputati e senatori siano sempre più stanchi, delusi e restii ad esultare.

Tanto più se le premesse di questo Esecutivo erano ben altre perché il Presidente del Consiglio in campagna elettorale – letteralmente riempiendo ogni piazza in cui si recava – ribadiva il suo rispetto per il funzionamento delle Camere. Un concetto che non ha semplicemente gridato in piazza ma che ha rimarcato anche in numerose occasioni ufficiali, non ultima quando il 15 dicembre, a margine del Consiglio europeo, si gonfiava il petto raccontando: “Mi pare che il giudizio della Commissione europea dica che abbiamo fatto una manovra molto seria, insomma siamo tra le nazioni che hanno avuto il giudizio migliore”.

Un giudizio, quello di Bruxelles, che “credo chiami alla responsabilità il parlamento italiano” affinché arrivi “a un’approvazione veloce (della legge di Bilancio, ndr), chiaramente tenendo conto dei passaggi parlamentari necessari che ho sempre difeso e che continuo a difendere”. Parole che, strano ma vero, la stessa Meloni si è rimangiata dopo appena sei giorni.

Ma la cosa più incredibile è che il premier ha sempre tuonato contro i governi precedenti, in particolare i due esecutivi guidati da Giuseppe Conte e quello di Mario Draghi, perché avrebbero abusato dello strumento della fiducia. Si tratta di una posizione legittima, sebbene non sembra tenere debitamente conto del fatto che spesso il ricorso a tale strumento è stato reso necessario da questioni urgenti come nel caso della pandemia, per la quale sarebbe lecito e normale aspettarsi che il governo del Centrodestra compia un cambio di passo rispetto al passato.

Le fiducie chieste dall’Esecutivo Meloni superano già quelle di Conte e Draghi

Peccato che se quest’ultimo c’è stato, allora sembra essere andato nella direzione opposta a quella attesa. Già perché ieri l’esecutivo Meloni ha incassato la sua quarta fiducia nel corso dei suoi primi 70 giorni. Ebbene nello stesso lasso di tempo, il Conte I non ne aveva collezionata neanche una, il Conte II era arrivato a tre, mentre quello Draghi si fermava a due.

Insomma se il buongiorno si vede dal mattino, allora l’esecutivo di Centrodestra – oltre a predicare bene e razzolare male – rischia seriamente di trasformare quello strumento che dovrebbe essere “straordinario” in qualcosa di sempre più ordinario. Una routine per la quale non c’è più nulla da festeggiare ma soltanto tanta amarezza per quel cambio di passo che avrebbe dovuto ridare centralità al Parlamento, almeno stando alle promesse elettorali, ma che non c’è stato e – forse – mai ci sarà.

Certo qualcuno farà notare che per la legge di Bilancio il tempo era in scadenza e quindi la fiducia era necessaria per evitare l’esercizio provvisorio. Ciò è indubbiamente vero ma nel 2019 all’epoca del governo giallorosso, il Conte II, si trovò costretto a chiedere la fiducia proprio sulla manovra. E in quell’occasione, ironia della sorte, proprio la Meloni prese la parola a Montecitorio per tuonare: “Se al Parlamento togliete il voto sulla manovra, la democrazia parlamentare non esiste più” anche perché Fratelli d’Italia “non ha avuto un atteggiamento ostruzionistico, come prova il fatto che i nostri emendamenti siano stati la metà di quelli presentati dal Pd”.

Poi, non contenta, fece un ulteriore affondo spiegando che quanto fatto dalla coalizione giallorossa “è un modo scandaloso di procedere”. Ecco parole che inevitabilmente rischiano di trasformarsi in un boomerang come non ha mancato di sottolineare Matteo Renzi che il 22 dicembre, proprio ricordando quelle frasi, ha spiegato che quanto “diceva Meloni contro il governo Conte”, ossia le accuse di presunta mancanza di democrazia per il ricorso della fiducia sulla manovra, “è proprio quello che lei stessa sta facendo in queste ore”.

Non solo. Il senatore toscano in quell’occasione ha sottolineato “l’incoerenza di Giorgia Meloni che all’opposizione sbraitava e in maggioranza fa peggio del governo di Giuseppe Conte”. Ma se sulla legge di Bilancio la Meloni non ha potuto fare altro che chiedere la fiducia, ciò per evitare un disastro economico – l’esercizio provvisorio – che sarebbe stato provocato dalla sua stessa maggioranza tra le lungaggini per dare vita al governo e quelle successive per trovare la quadra sul testo, non si può dire altrettanto per il decreto Aiuti quater e, ancor di più, per il decreto Rave.

Si tratta di un provvedimento bandiera, preso quando l’Esecutivo stava letteralmente muovendo i suoi primi passi, che ha provato a porre un freno a un fenomeno – quello delle feste illegali – che non è di certo così pervasivo come si vuol far credere. Insomma un decreto relativamente semplice da portare a casa poiché bastava circoscrivere correttamente il problema e delineare la strategia per risolverlo.

Peccato che qualcosa sia andato storto e il testo del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi secondo innumerevoli giuristi era un vero e proprio pasticcio frutto, forse, della fretta di agire. Questo perché era stato introdotto un nuovo articolo del codice penale, il 343-bis, in modo talmente vago da essere valido per un’infinità di casi diversi. Così è divampato un dibattito in Aula con le opposizioni sul piede di guerra e la maggioranza, decisa a non far decadere il decreto, che ha preferito fare tutto da sé ponendo la fiducia.

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